Andando “oltre” la recensione di Stranger Things 4, l’analisi della quarta stagione della serie dei fratelli Duffer permette di ragionare sul fatto di come essa, pur creando una narrazione distesa e appassionante di “intrattenimento”, confermi e al tempo stesso rappresenti una variatio dell’idea che Hollywood produca solo remake di vecchi cult.

Può una serie televisiva valere come epifenomeno per un generale stato di cose, una situazione anzitutto esistenziale diffusa a livello globale? La fortunata serie Netflix dei fratelli Duffer, Stranger Things, arrivando alla sua quarta stagione – al primo volume della quarta stagione, per essere precisi, dal momento che gli ultimi due episodi saranno rilasciati a luglio – incarna perfettamente una tendenza che è stata riscontrata nella fantascienza già da qualche decennio, il retrofuturismo e la ribalta.

Per farla breve: il retrofuturismo è quella posa di racconto per cui un film o un romanzo di fantascienza immagina il futuro così come veniva presentato ai tempi d’oro della fantascienza classica – una visione stereotipata e anacronistica, che magari non disdegna neanche di scimmiottare gli stilemi della sci-fi più ingenua e scanzonata. Un esempio notevole di retrofuturismo contemporaneo è dato dal Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve, ha un approccio fin troppo autoriale per esprimere fino in fondo le implicazioni – se vogliamo – negative di questa corrente; un piccolo cult come Prospect, disponibile su Amazon Prime, forse ne esprime meglio – del retrofuturismo – le implicazioni, dal momento che, della golden age della fantascienza degli anni cinquanta, il film di Christopher Caldwell, Zeek Earl recupera tanto l’atteggiamento fiducioso verso il futuro (lo scenario in cui gli uomini del domani vanno in giro tra le galassie a terraformare mondi), quanto la semplicità della trama e i molteplici rimandi coi western, forse il genere più in voga/più occhieggiato,negli anni in cui la fantascienza ancora si stava codificando.

Stranger Things, per molti versi, è un caso eclatante di retrofuturismo impostosi all’attenzione di spettatori di tutto il mondo anche grazie a un’innegabile bravura nell’accorpare e ibridare da un lato l’immaginario di Stephen King, sia in termini di teen horror sia da romanzo di formazione in stile Il corpo, e dall’altro lato molteplici rimandi al cinema di genere vecchio stile, tra E.T., Alien, Carrie, I Goonies, lo stesso Indiana Jones, e con questa nuova stagione anche Nightmare on Elm Street di Wes Craven – il cui protagonista Robert Englund riaffiora per un notevole cameo. Tuttavia, Stranger Things e anche un caso paradossale di retrofuturismo perché non parla al futuro bensì al passato e racconta gli anni ottanta non per come sono o sarebbero stati, bensì per come si sono raccontati attraverso i loro film e, in generale, la loro narrativa “di genere”.

Quello rappresentato da Stranger Things è un case study fin troppo interessante nell’ambito di una critica dell’immaginario: se un’innegabile tendenza del nuovo canone hollywoodiano contemporaneo è quella di produrre a ripetizione sequel, remake, reboot e rip-off – esempio più recente e quasi da manuale è Top Gun: Maverick – Stranger Things si colloca in un crocevia. Da un lato Stranger Things racconta una nuova storia che è contemporanea nelle sue tematiche e nei suoi sottotesti (l’empowerment femminile rappresentato da Undici, il dibattito, che già da tempo ha superato lo stadio della fan fiction, sulla presunta omosessualità del personaggio di Will), mentre dall’altro lato la serie recupera – e non per forza in senso critico – una vera e propria operazione Frankenstein nel senso che prende la struttura narrativa di un It, l’immaginario tenebroso da Nightmare, la figura di Undici da L’incendiaria, la rappresentazione caricaturale dei russi da tutto il cinema di genere semplificatorio e americanista uscito a cavallo tra anni cinquanta e anni ottanta.

Questa tendenza alla sovranarrazione è tipica di molto cinema e soprattutto molta serialità contemporanea, ma Stranger Things l’ha portata al parossismo e proprio da questo deriva in buona parte il suo enorme successo mondiale. Già adesso, a neanche tre settimane dalla sua uscita, la quarta stagione di Stranger Things è stata proclamata come uno degli show Netflix più visti di sempre. Ma non è il ritirarsi giocoso in un periodo del passato reimmaginato, in un luogo inventato – la Hawkins degli anni ottanta – esso stesso un segno dei tempi? E questa narrativa zombieficata, perennemente ibridante, costantemente citazionista, non lascia profilare uno stato di cose per cui l’unico immaginario possibile, per le vecchie come per le nuove generazioni, sia già un meta-immaginario? Non si può neanche parlare di sterilità, pensi di torsione, di un paradosso già da tempo impostosi all’attenzione dei critici, quello per cui la fantascienza e il fantasy si scoprono essere i due generi più adatti a esprimere una certa nostalgia tanto apodittica quanto endemica.

Per il resto, nulla da eccepire sul fronte qualitativo: giunta alla sua quarta stagione come capacità di formulazione e affabulazione narrativa Stranger Things ha solo da insegnare ad altre serie. La scelta di far durare quasi tutti gli episodi oltre l’ora, con il finale di stagione previsto a luglio di oltre due ore e mezza, consente di creare una narrazione distesa, approfondita e al tempo stesso fresca che ricorda il più spontaneo romanzo di Stephen King. Soprattutto nel quarto episodio la qualità narrativa e recitativa della serie si impenna notevolmente con la scena di Sadie Sink e Running Up That Hill di una rediviva Kate Bush ormai entrata con impressionante rapidità nell’immaginario collettivo. Che le serie – alcune serie – abbiano raccolto in eredità quella capacità mitopoietica un tempo appartenuto ai film è un dato di fatto pacifico; ma che, con Stranger Things e il Marvel Cinematic Universe, cinema e serie sarebbero arrivate reciprocamente a intersecarsi è un fenomeno strutturalmente nuovo, che verrà la pena continuare ad approfondire con le serie che verranno nei prossimi anni.

Titolo: Stranger Things – Stagione 4
Regista: Matt & Ross Duffer, Shawny Levy, Nimród Antal
Sceneggiatura: Matt & Ross Duffer, Paul Dichter, Kate Trefry, Caitlin Schneiderhan, Curtis Gwinn
Attori principali: Winona Ryder, David Harbour, Millie Bobby Brown, Finn Wolfhard, Gaten Matarazzo, Caleb McLaughlin, Noah Schnapp, Sadie Sink
Scenografia: Chris Trujillo
Fotografia: Caleb Heymann, Brett Jutkiewicz
Montaggio: Dean Zimmerman, Nat Fuller, Casey Cichocki
Costumi: Amy Parris
Produzione: Camp Hero Productions, 21 Laps Entertainment, Monkey Massacre
Distribuzione: Netflix
Durata: 13 ore x 9 episodi
Genere: fantascienza, fantasy, teen
Uscita: 27 maggio (Vol. 1), 1 luglio (Vol. 2)