Il Balkan Film Festival giunge alla quinta edizione, e ci parla di donne. Abbiamo visto Darkling di Dusan Milic, The Albanian Virgin di Bujar Alimani e Murina di Antoneta Alamat Kusjanovic.

Andiamo subito al punto. I film visti qui alla Casa del Cinema di Roma per il Balkan Film Festival puntano diritto lo sguardo sull’individuazione femminile. È un segno dei tempi? Probabilmente sì. È come se Emir Kusturica in Ti ricordi di Dolly Bell? lasciasse da parte il protagonista adolescente e smarrito – Dino – e seguisse le vicende della giovane donna che ambisce a farsi bionda e a imitare lo spogliarello di un’attrazione sexy europea. Se Kusturica decidesse oggi di riallestire il suo capolavoro d’esordio, lascerebbe in disparte Slavko Štimac per seguire le vicende di Ljiljana Blagojević? Probabilmente sì.

Se l’ideologia è stata la ricerca di un universale in grado di unire l’umanità dal versante della legge posta in posizione maschile, nel moderno è l’oikos (lo spazio domestico), a prendere dimensioni universali. È come se gli uomini, non più al centro del mondo, si trovassero all’improvviso sprovvisti di un potere che ora è possibile esercitare solo deponendolo. Davanti non ci sono nemici, ma solo oggetti da conoscere, simbolizzati da un femminile impossibile da irreggimentare. Gli uomini si trovano così a fare dell’amore una forma di conoscenza muta e a cui non sono mai stati alfabetizzati, scoprendosi goffi come elefanti in una cristalleria. L’estraneità non è più fuori ma dentro, incalzata da una figlia che rifugge la dinamica amico/nemico della guerra (Darkling); in The Albanian Virgin, sempre una figlia – Luana – trova una via di fuga da un matrimonio tribale in un codice medievale, che gli permette di assumere nome e ruolo maschile mancando nel nucleo il pater familias, ucciso dal suo promesso sposo; in Murina, Julija è un’adolescente, un corpo da donna decisa a sfidare suo padre – Ante – per sfuggire a un rapporto di sottomissione che, a dispetto di soldi e barca a vela, deve restare regolato secondo un severo patriarcato.

La cosa difficile da accettare per uomini siffatti è che l’esperienza transgender – che vediamo così sorprendentemente espressa in The Albanian Virgin – sia ormai tratto del moderno, al di là di reali transizioni. È questo sanissimo contagio che il cinema balcanico sembra promuovere, vedendo nella crisi dell’oggi non una caduta di valori stabiliti una volta per tutte, ma un’occasione per valorizzare la differenza. Riconoscere l’Altro vuol dire accogliere una libertà che non sarà mai appropriabile. Il “noi” che ne risulterà sarà sempre attraversato da un “negativo” per il quale la via che lo raggiunge non potrà condurre che alla miseria che ci costituisce. A niente vale rivendicare hegelianamente servitù sopra alle quali ergersi come su un piedistallo, in mancanza del quale fare rabbiosamente del mondo una distesa senza vita: l’autocoscienza che sorge dal riconoscimento dell’altro, autocosciente a sua volta, esclude fantasie reali o meno di dominazione. Luana, costretta a sottoporsi al giuramento rituale per trasformarsi in burrnesh (vergine giurata), assume la posizione maschile per adempiere la vendetta, facendo allo stesso tempo vivere quella femminile per estinguerla.

In questo, la pulsione femminile che anima il cinema balcanico contemporaneo, che si tratti di autori come di autrici, è in realtà un appello al maschile perché parli e possa dire qualcosa che vada oltre il sociale, oltre cioè la dicotomia vittima/carnefice, oltre la palude immobilizzante di un eterno circuito colpa/riparazione. Perché è così importante la parola degli uomini? Se Luana dovrà diventare uomo per colmare non il proprio vuoto di donna, ma quello di un padre disposto esclusivamente a fare legge dei propri istinti di possesso, in Murina la fuga a nuoto di Julija – lo sappiamo da subito – non condurrà da nessuna parte se suo padre non potrà confessargli da quale pietrificazione storica sorge. Le uniche parole interrogative di Ante sono nel finale, prima di tuffarsi con sua figlia per l’ultima caccia alla murena: «Nessuno mi ama, è così?». Non si tratta di rivendicare uguaglianza o ritorsioni, piuttosto l’evidenza di una irriducibilità di fronte alla quale lo sguardo attonito di Ante nell’acqua, dopo il fallimento della caccia, è la condensazione aberrante dell’intero film: ora è lui la murena colpita, palpitante e privata di arroganza, mentre sua figlia, fuggendo in mare aperto, si è appena trasformata in una sorta di pesce-sirena non più capace di canto.

In Darkling, la parola che manca è la legge, in assenza della quale emerge la parte oscura dell’uomo. È il 2004 e siamo nell’entroterra del Kosovo, nel pieno del sanguinoso conflitto che spinge via i serbi a opera di frange estremiste albanesi. La piccola Milica vive con la madre Vukica e il nonno Deda Milutin, in una casa circondata da una foresta che sembra nascondere oscure presenze. Deda si rifiuta di fuggire, come stanno facendo tutti, malgrado la notte sia necessario barricarsi. La lettera di Milica (la sorprendente Miona Ilov) alle Nazioni Unite all’apertura del film è in realtà ben più di un espediente narrativo; è l’invocazione tutt’altro che ingenua fatta da una bambina a quell’artificio leviatanico che da Thomas Hobbes ai giorni nostri permette di barattare un po’ di autonomia con la “sicurezza” della legge. Il fatto che il regista Dusan Milic abbia scelto un’inquietante atmosfera gotica, vuole avvertire su come quei demoni che di solito divertono il pubblico, possano in ogni momento uscire dallo schermo e invadere la realtà. Nessuno è al sicuro dai fantasmi della guerra e a niente vale farne una confezione accattivante, buona per provare una paura estetica, ma senza adeguata manutenzione di una reale coesione sociale basata su un organismo politico legittimo.

Darkling merita un posto particolare, se non altro perché riconosciamo dapprima Slavko Štimac che interpreta Deda (non ci possiamo sbagliare, è lo Štimac interprete di Dino in Ti ricordi di Dolly Bell?), e poi perché, a vedere bene, sua figlia Vukica è interpretata da Danica Curcic, irriconoscibile dal personaggio di Nela che assume in Murina (tanto la madre di Julija appare bella e sofisticata, quanto qui Curcic è una donna dal corpo sfiorito anzitempo dalla guerra). Altro merito è la capacità degli autori di tirare il pubblico letteralmente dentro ai fotogrammi, tanto da aver paura di mettere noi stessi il piede nelle trappole che Deda semina nell’aia in preda a una paranoia indistinguibile da una reale percezione del pericolo. Sebbene lo stile visivo sia diverso, The Albanian Virgin e Murina scelgono di srotolare la storia secondo una linearità più convenzionale, rischiando così di attutire le cadute dentro i picchi drammatici, regolati da un tempo cronologico prevedibile, capace di seguire la superficie narrativa e meno le cadute, i tremori, gli abissi, le angosce indicibili, così da farne minaccioso contagio estetico per quel pubblico che vuole sentirsene immune.

“Da soli non si vive / senza amore non morirò” canta Morandi nell’abitacolo del corazzato ONU che porta Milica a scuola sotto il pericolo di imboscate. I soldati sono italiani e per sollevare il morale dei bambini cantano Vagabondo, facendo allusione probabile a 24mila baci di Celentano che fa da tormentone alle vicende di Dolly Bell. Di fronte a una situazione di angoscia insostenibile, che sia in pericolo la nuda vita o quella emotiva, si è soli, malgrado il double bind (doppio legame) della canzone che pone i personaggi di fronte a un’aporia da cui non c’è uscita: accettare una vita senza amore per difendersi dalla presenza degli altri, rischiando così di essere già morti. Nel 1989 il filosofo sloveno Mladen Dolar paragona l’inconscio alla Jugoslavia, «luogo di oggetti perduti e occasioni mancate, pieno di segreti, di sessualità e morte». Che i Balcani rappresentino non da ora lo specchio obliquo dell’Europa è cosa più volte affermata; che ne sia l’inconscio lo potremo apprendere dai sogni. Ben venga quindi il Balkan Film Festival per aiutarci a sognare la nostra Europa, attraverso questo cinema che insiste a tenere alta la guardia per il mosaico a cui apparteniamo.

I film sono stati presentati all’interno del Balkan Film Festival 2022
Casa del Cinema
Largo Marcello Mastroianni 1 – Roma
dal 29 Novembre al 4 Dicembre 2022
a cura dell’Associazione Occhio Blu Anna Cenerini Bova

The Albanian Virgin
regia Bujar Alimani
sceneggiatura Katja Kittendorf
fotografia Jörg Widmer
suono Srdjan Kurpjel
montaggio Philipp Thomas
musiche Olaf Didolff
interpeti Nik Xhelilaj, Kaltrina Krasniqi, Alban Ukaj, Astrit Kabashi, Kasem Hoxha, Gresa Pallaska, Jonida Vokshi, Shkurte Sylejmani, Mimoza Azemi
produzione COMPANY Elsani & Neary Media GmbHAlbania
anno 2021
durata 120’

Darkling
regia Dušan Milić
sceneggiatura Dusan Milic
fotografia Kiril Prodanov
montaggio Yannis Chalkiadakis
musiche Kristian Eidnes Andersen
interpreti Danica Curcic, Darren Pettie, Slavko Stimac, Nikola Kent, Flavio Parenti, Nikola Rakocevic, Slavisa Curovic, Miona Ilov, Nikola-Kole Angelovski, Sladjana Bukejlovic, Ilija Ivezic, Natalija Mitic, Lazar Maksimovic, Ivan Zerbinati, Riccardo Maranzana
distribuzione A_Lab. in collaborazione con Lo Scrittoio
produzione A_Lab, Eurimages, Film Deluxe International, Filmski centar Srbije, Firefly Productions, Graal, RFF International, Space Rocket Nation, This and That Productions2022
durata 104’

Murina
regia Antoneta Alamat Kusijanovic
sceneggiatura Antoneta Alamat Kusijanovic, Frank Graziano
fotografia Hélène Louvart
montaggio Vladimir Gojun
scenografia Ivan Veljača
musica Evgueni Galperine, Sacha Galperine
produzione Antitalent Produkcija, Spiritus Movens d.o.o., SPOK Films, Staragara Productions, RTV Slovenija, Viba Film Studio, RT Features [BR], Sikelia Productions [US]
interpreti Gracija Filipović, Leon Lucev, Danica Curcic, Cliff Curtis, Jonas Smulders
anno 2021
durata 92’