Lo scenografo delle stelle

Dopo un approfondito saggio su Il Padrino, Jimenez prosegue la collana di pubblicazioni sul cinema con un libro di e su Dante Ferretti, scritto assieme a David Miliozzi: Immaginare prima restituisce così la vita e la carriera del più grande scenografo italiano.

Dante Ferretti è una delle figure più formidabili del cinema italiano e internazionale. La sua carriera di scenografo, iniziata nei primi anni sessanta e non conclusa, lo ha portato, al di là dei tre premi Oscar che certo non è cosa da poco, ad affiancare registi del calibro di Pasolini, Fellini, Scorsese, Terry Gilliam, Tim Burton, Jean-Jacques Annaud e, per restare in territorio italiano, Elio Petri, Liliana Cavani, Marco Ferreri. Sulla soglia degli ottant’anni, con la collaborazione dello scrittore David Miliozzi, marchigiano di Macerata come lui, Dante Ferretti si è raccontato in un volume, a metà strada tra memoir, saggio biografico e libro-intervista, intitolato Immaginare prima. Le mie due nascite, il cinema, gli Oscar e recentemente pubblicato da Jimenez Edizioni. Il volume è arricchito da un notevole battage grafico, diversi inserti a colori che riproducono i bozzetti disegnati da Ferretti per immaginare e presentare ai registi le scenografie di alcuni dei suoi film più noti: da Medea di Pasolini a Prove d’orchestra di Fellini, da Hugo Cabret di Martin Scorsese a Black Daliah di Brian De Palma.

«Mi piacciono le atmosfere calme e inquietanti di De Chirico, il déco, l’immaginario del cinema anni trenta. Dietro ogni [mio] film c’è l’iconografia di uno o più artisti; penso all’atmosfera di Cenerentola, fortemente ispirata ai dipinti di Fragonard, a Silence e alla nitidezza spirituale di Caspar David Friedrich, a Ritorno a Cold Mountain e alla pittura francese da Delacroix fino alle ninfee di Monet; penso al labirinto del Nome della Rosa, ispirato a Escher e a Piranesi. L’età dell’innocenza è una specie di manuale di storia della pittura dell’Ottocento: c’è Corot, Constable, gli impressionisti. In ogni sala sono appesi dei quadri che caratterizzano psicologicamente i protagonisti. Martin è peggio di me. Un maniaco del dettaglio».

A differenza di quanto fatto da un altro maestro del cinema italiano del calibro di Vittorio Storaro, anche lui vincitore di tre Oscar ma per la fotografia, in Immaginare prima Dante Ferretti si racconta in una perenne commistione tra set e vita famigliare, ricordi di infanzia e confessioni sulle numerose serate di premiazione degli Oscar a cui ha partecipato assieme alla moglie e art director Francesca Lo Schiavo. Il risultato finale non porta “dentro” il suo laboratorio artistico, ma dà un ritratto a tutto tondo dello scenografo e dell’uomo che già a inizio carriera Pier Paolo Pasolini non esitava a definire, anche pubblicamente, un genio nel suo campo.

«Ormai non sono più un ragazzetto, ho sessant’anni più IVA, ma ricordare Pasolini e Fellini mi emoziona come un bambino. Ho dato forma alle loro fantasie, fino al loro ultimo film. Due immaginari così diversi, per certi aspetti opposti. Testimone privilegiato del loro genio, sono diventato una specie di cerniera tra l’universo pasoliniano e quello felliniano. C’è una vera e propria sovrapposizione stilistica tra le atmosfere rigorose di Salò (l’ultimo film di Pasolini) e di Prova d’orchestra (il mio primo film con Fellini)».

Da Prova d’orchestra Ferretti sarebbe arrivato fino alla fine della filmografia di Fellini, con l’ultimo, malinconico La voce della Luna, saltando solo il televisivo Intervista per affiancare Terry Gilliam alle scenografie di Münchausen. Più che su Fellini o su Scorsese però, i passaggi più interessanti del libro di Ferretti sono proprio quelli riguardanti Pier Paolo Pasolini, che lo scenografo conobbe sul set materano-laziale del Vangelo secondo Matteo, ai tempi in cui era ancora assistente di Luigi Scaccianoce. Ferretti non nasconde una certa emozione nel ricordare come, al momento di girare la scena della crocifissione sul Golgota rievocato tra i colli di Matera, «Pier Paolo durante le riprese, mentre Cristo veniva inchiodato, a tratti guardava il cielo, sembrava pregasse o aspettasse un segno». Dopo un’altra serie di set come assistente e la delusione di vedere il suo maestro Scaccianoce vincere il Nastro d’Argento per le scenografie del Satyricon felliniano, in cui la maggior parte del lavoro era stato fatto da Ferretti in qualità di primo assistente, fu sempre Pasolini a insistere con la produzione affinché debuttasse come scenografo in carica: fu così che la Medea con Maria Callas divenne il primo e già esemplare titolo di una filmografia davvero ineguagliabile.

«Che cos’è la scenografia, se non la terza dimensione del cinema?». Regista solo occasionalmente e unicamente per regie d’opera, Ferretti ha comunque saputo imporre una firma, un suo brand d’autore, nella grandiosità delle scenografie, autodefinite «maximaliste». Ma Tullio Kezich lo aveva già intuito in tempi non sospetti: «c’è un Ferretti segreto, l’artista condizionato da una personalissima visione del mondo, piuttosto cupa e apocalittica, che lo induce a innestare una sorta di segnale di allarme in ciascuna delle sue fantasticherie». In Immaginare prima Ferretti ricorda a più riprese l’episodio più sconvolgente della sua infanzia, quando, a poco più di un anno, durante un bombardamento alleato su Macerata rimase schiacciato dalle macerie della sua stessa casa. Solo per caso e grazie all’intuito di una compaesana, riuscirono a estrarlo dai resti del bombardamento e a salvargli la vita. Lo stesso immaginario bellico riaffiorò poi nelle scenografie di The Aviator, biopic di Howard Hughes a firma di Martin Scorsese, che fruttò a Ferretti il suo primo Oscar. In Immaginare prima non mancano paesaggi ponderatamente autoriflessivi: «solo molti anni dopo ho cominciato a riflettere sul peso simbolico di quelle macerie. Dopo avere subito la distruzione della casa in cui ero nato, l’annientamento del nostro mondo, sono diventato uno scenografo, un inventore di mondi. A volte penso di avere passato il resto della mia esistenza a ricostruire la casa che mi è crollata addosso».

Ma nel libro di Ferretti non manca neanche la consapevolezza dal puro sapore junghiano di una predestinazione che lo scenografo riconduce a una frase che gli ripeteva la madre da bambino, rievocando quell’episodio dei tempi di guerra: «Dante, Dio ti ha salvato dalle macerie. È scritto nel tuo destino che farai grandi cose».

Se la critica cinematografica e anche il pubblico di cinefili e aficionados si soffermano, spesso con miopia, su registi, attori e tutt’al più sceneggiatori, in uno schema di lettura ferma alla “politica degli autori” di fine anni cinquanta, è proprio l’importanza e la trasversalità di figure come Dante Ferretti, Vittorio Storaro, Milena Calonero o Gianni Quaranta a dimostrare, una volta ancora, quanto il cinema debba alle maestranze, ai cosiddetti “tecnici”, perlomeno ai capireparto. Punte di diamante del cinema italiano che non hanno tardato a ricevere più richieste dall’estero che da noi, figure come quelle sopraelencate hanno dato un contributo indelebile alla storia della settima arte, eppure, Storaro a parte, raramente sono state raccontate a dovere. Anche da questo deriva l’importanza e la piacevolezza di un volume come Immaginare prima, che pure non scorda la qualità prima che un libro, a prescindere dall’argomento, dovrebbe avere: la qualità della scrittura, l’equilibrio della costruzione autonarrativa, il perfetto equilibrio di tono tra affettazione e grandeur.

foto: Dante Ferretti. Courtesy Archivio Dante Ferretti

Immaginare prima. Le mie due nascite, il cinema, gli Oscar
di Dante Ferretti in collaborazione con David Miliozzi
Jimenez (Roma)
pp. 270