Mediocrità, non ti temo

Grandi rivelazioni, talenti eccezionali, straordinarie epifanie dei giudici: NULLA di tutto questo al terzo appuntamento con il serale di X Factor 7 dedicato agli anni Novanta, forse il meno riuscito e il più stucchevole dall’inizio di questa edizione, ancora lontana, molto lontana dal mantenere i successi che promette.

La X Factor Arena, in questo incerto giovedì di novembre, somiglia più a una classe di liceo in cui tutti, dai prof agli allievi, sono indisciplinati e negligenti. Il pubblico, supremo rettore dell’istituto, invia note e richiami a colpi di tweet in primis ai giudici, bacchettandoli di essere melliflui, buonisti, poco combattivi e critici ancor meno. Vero, ma ci mancava anche questa: di vedere quattro seniores del palcoscenico e del piccolo schermo piegarsi sul banco a fare i compitini assegnatigli per punizione dopo la strigliata, mettendo in scena guerre artificiali in cui le sole vittime sono i concorrenti, sempre meno talentuosi e più smarriti.
Che cosa sta accadendo in questa settima edizione del talent show più seguito e amato del momento? Cosa tiene incollati allo schermo gli spettatori (compreso chi scrive) per ore, sopportando le ignobili pubblicità dei salsiccioni pronti in due minuti, in cui i poveri ex talenti (presunti) della passata stagione svelano al mondo la triste sorte a cui proprio il talent li ha condannati – si teme – per sempre? L’impronunciabile risposta forse è proprio: NULLA. Non sta accadendo niente di niente, il che è probabilmente la grande trappola che garantisce i picchi d’ascolto: si crea un meccanismo di attesa, quasi morbosa, che qualcosa di valido si palesi finalmente, e questa attesa acquisisce in sé più significato della cosa che si aspetta. Morale da fiabe esopiche, che non basta a giustificare il vuoto di senso incombente sul lavoro dei giudici e dei cantanti in gara.
La paura della mediocrità, dichiarata fra le lacrime da Gaia in un “dietro le quinte” della scorsa settimana, non sembra minacciare giudici e produzione, che invece le vanno incontro come se fosse l’amica ritrovata, la gemella separata alla nascita. Così esplode l’entusiasmo, ad esempio, dopo l’insulsa esibizione di Valentina, glorificata per aver ballato e cantato insieme, senza far neanche menzione della pessima vocalità dimostrata, della totale incapacità di catturare con il canto fino all’agognato frangente ritmico hip hop che (abbiamo capito ma anche basta) è nelle sue corde. Così si grida al miracolo quando Violetta recupera nome di battesimo e ukulele e trasforma i Cure in un gospel da campi di cotone perché la ragazza, osannata come un raggio di luce, come un’anima tutta arte, sa fare (benissimo, d’accordo) solo quello. Ma a quanto pare cantare tutte le canzoni del mondo come se fossero sempre la stessa è prova di originalità e personalità, a sentire i giudici. Per fortuna nel loro vociare delirante si manifestano talvolta barlumi di verità, e poco importa se siano pronunciati per alimentare il fuoco delle polemiche impenna-audience o se rappresentino un pensiero autentico. Importa che siano condivisibili, finalmente. Ha ragione Mika su Fabio e la sua interpretazione di Everybody hurts dei R.E.M.: «Per me questa canzone è un inno. Non ho sentito niente di emozionale. Non hai toccato il mio cuore». E come avrebbe potuto, impegnato com’era a ostentare la sua vocalità dimenticando il senso delle parole pronunciate, della musica, insomma dell’arte? Idem per Gaia, in evidente crisi di identità e di intenzioni, crisi che il suo giudice non aiuta a risolvere, ma anzi contribuisce ad accrescere. Il commento della Ventura alla sua Stand by you: «Mi manca la Gaia dei casting. Forse Mika deve capire che percorso fare, non questo». Come darle torto, se gli esiti dell’immenso potenziale di questa concorrente si rivelano tanto insoddisfacenti? Inconfutabile poi la voce fuori dal coro di Elio su Andrea e la sua esibizione in omaggio addirittura a Peter Gabriel: «Trovo che la tua prova sia inaccettabile. Non c’è nessun collegamento tra la tua interpretazione e il testo». D’altronde, assegnare a un under un simile onere non poteva che essere un delirio d’onnipotenza di Morgan, e un sicuro fallimento. Ma il giudice mitomane non si ferma qui, e in un attacco compulsivo di generosità decide di affidare al talento di Michele un brano dei Bluvertigo, peraltro splendido, Cieli neri. Al di là dell’ormai incommentabile atteggiamento del Castoldi, che oscilla tragicamente dal compassionevole al ridicolo, e che mantiene un contegno solo quando sfoggia la sua inattaccabile competenza in materia musicale, il giovane Michele è come sempre degno del compito. Epperò, c’è un però: puramente convincente e avvolgente a tratti, in altri pare insipido, staccato non dalla canzone, ma da chi la ascolta. Il perché è tutto da capire: azzeccata stavolta la tonalità, come pure la scelta (altruistica) del brano, si è comunque lontani, anche con lui, da quella sensazione orgasmatica di appagamento che danno le esibizioni dei grandi talenti. Chi più si è avvicinata a simili effetti sinora è Roberta, che nella scorsa puntata ha dato prova di un canto straordinariamente umano e viscerale. Peccato che Mika le abbia riservato la temibile All that she wants degli Ace of Base, che lei gestisce alla grande ma che lascia amarezza e sdegno in chi è costretto a sorbirsi da casa questa folle scelta artistica. «Trash consapevole» la definisce Morgan: non a torto forse, ma eclissando ad ogni modo il carisma che la cantante ha dimostrato, nonostante tutto.
Non c’è dubbio che le migliori sorprese della serata siano state confezionate da Ape Escape e Street Clerks: meritevoli di essere autori, oltre che esecutori, degli arrangiamenti dei pezzi, si cimentano i primi in un remake ben riuscito (certamente indigesto per gli amanti del grunge) di Smell like teen spirit dei Nirvana, mixando il sound di Seattle con il punk e il rap senza tralasciare le armonizzazioni (risultando finalmente meno scomposti fisicamente e più attenti al cantato), i secondi in una Baby one more time della Britney mondiale totalmente stravolta e splendidamente rimontata, dimostrando di avere talento da vendere. Morgan ha una buona parola per entrambi: critica la scelta degli Ape Escape di contaminare un brano degli anni Novanta con influenze figlie dello stesso decennio, mancando (così si capisce) di sensibilità e sapienza musicale, e definisce la performance degli Street Clerks «kitsch inconsapevole», denigrando il lavoro dei ragazzi nonché il loro ottimo esito. Velo pietoso sullo sconcerto di Mika per la scelta del brano, pari se non migliore della sua (di cui sopra) relativa a Roberta.
I giudici antagonisti di Elio raggiungono un coro all’unisono nelle critiche ai suoi concorrenti Alan e Aba. Afflitti da ambiziose assegnazioni, non hanno retto il peso del confronto, lui con i Soundgarden, lei con Annie Lennox. Ci si domanda: e ve ne stupite? Non era forse chiaro che i due concorrenti, dotati senz’altro, ma oltremodo sopravvalutati, non sarebbero sopravvissuti alla sfida? Alan, alla perenne ricerca di una identità musicale tutta sua – e la scorsa settimana pareva avvicinarsi al traguardo – andava facilitato con un brano tecnicamente meno impegnativo, ma adeguato sul piano interpretativo; Aba, afflitta da una compulsione al grido smodato e alla stecca sugli acuti – di cui però si continua a tacere inspiegabilmente – non ha resistito neanche stavolta, nonostante il pezzo soffuso e totalmente emotivo, a far leva sulla grinta anziché su un registro intimistico. Tant’è, i due finiscono in ballottaggio, dove danno il meglio di loro stessi intonando i cavalli di battaglia (segnale inquietante, che siano convincenti solo sul repertorio personale noto, e non su un ventaglio più ampio). Il povero Alan, con la faccia da patibolo, è il concorrente destinato all’eliminazione.
Una sensazione di ammanco, di confusione, di assenza è quanto si percepisce sul finale di puntata: un andamento piano e bigio che gli ospiti (John Newman a inizio serata, Chiara in duetto con Mika nella seconda parte) non hanno potuto in alcun modo sollevare. E se la produzione si pasce dei grandi numeri dell’ascolto, sul divano di casa si resta sconcertati. Si vuole di più, anzi no: si vuole il giusto, il minimo sindacale esigibile da una trasmissione che scova talenti e li mette in mostra. Chissà che l’errore non sia proprio questo: chiedere verità a un meccanismo creato per produrre fenomeni di finzione. La tragedia però non si consuma nello spettatore e nel crollo delle sue illusioni, ma nell’animo dei concorrenti, che avevano un sogno e un’ambizione prima, e li vedono mortificati e torturati proprio da chi dovrebbe custodirli e nutrirli.
Una depressione che neanche una scorpacciata di salsiccioni basterebbe a risanare.

Lo spettacolo è andato in onda:
Sky 1HD
giovedì 7 novembre, ore 21.10

X Factor 7
Il serale (III)
con Alessandro Cattelan, Elio, Simona Ventura, Mika, Morgan