La dialettica tra lotta all’originarietà mitica e sostegno all’immaginario commerciale

Con la sua terza stagione, la serie firmata e prodotta da Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steven Canals, dedicata alla storia della comunità LGBTQ e alla tradizione delle ballroom di New York che ha attraversato e alimentato l’immaginario degli anni 80 approdando anche nei 90 e sfociando nei Duemila, è giunta al capolinea.

Pose è indubbiamente stato un prodotto di ottimo livello per varie ragioni: la sensibilità collettiva per il dibattito sui diritti civili è la chiave per comprendere le ragioni della capacità di attrazione di questo racconto profondamente drammatico, perché la storia dei trans, queer e della comunità omosessuale è una storia di sofferenze, dolore, emarginazione e discriminazione. La vicenda di questa comunità si sovrappone all’autentico sterminio sistematico avvenuto a causa dell’HIV, ma si interseca anche con la diffusione delle droghe per giungere poi alla fuoriuscita dalla ghettizzazione culturale e approdare nel mainstream e nella cultura di massa per tramite dell’immaginario pop anni 80, costruito sul parossismo visivo e sull’esuberanza coreografica e scenografica. Questa è la dimensione dove si esprimono al meglio il talento di Ryan Murphy e di Brad Falchuk, che se in passato avevano subordinato l’estro stilistico e iperestetizzato per progetti visivamente sofisticati, ma vuoti di precise intenzionalità sociali, qui riescono a direzionare la loro creatività pomposa ed esagerata per raccontare una storia che ci dice molto dell’altra faccia dell’America postmoderna.

Non sarebbe sbagliato sostenere che proprio la cultura mainstream del pop anni 80 si sia lasciata ispirare dal fenomeno delle “ball” trasfigurandolo in termini commerciali, e viceversa: nel passaggio ai 90es infatti è la comunità LGBTQ ha farsi travolgere dall’immaginario “Vogue” di Madonna trasferendo il mondo esterno nella riservatezza settaria delle ball. D’altronde, il racconto di Steven Canals è avvalorato e sostenuto dall’esperienza biografica: lo stile eccessivo diventa strumento di trasgressione e perciò stesso di rivalsa sociale, in una dinamica dialettica assai suggestiva perché partendo dall’espulsione che i membri della comunità hanno vissuto – in misura differente – dai propri nuclei familiari di origine, non rinnegano affatto il principio del gruppo e della famiglia, ma lo ristabiliscono in maniera affettiva, amicale, relazionale. Le nuove famiglie si rivelano molto più “famiglie” di quelle determinate dal legame di sangue.

Le vicende della comunità LGBTQ, le storie private dei suoi membri, soprattutto nell’immaginario machista e arrivista dell’America reaganiana, sono storie di resistenza, di lotta, in cui si sfida il principio tribale e ancestrale del legame di sangue e dell’identità naturale di tipo binario non per una vanificazione dei principi ma per ristabilire un nuovo legame basato proprio sulla sofferenza e la frustrazione condivisa.

La fine del legame di sangue per un nuovo inizio che va al di là del mito dell’originarietà naturale, il tutto per ristabilire nuovi vincoli familiaristici anche più importanti ed essenziali, perché non essendo naturali, paradossalmente, non sono posticci: non sono “artificiali” perché comandati dall’alto, ma autentici. L’autenticità è perciò – ancora il paradosso – ciò che non appartiene al destino della natura, perché autentico è ciò che è frutto di una scelta, di un percorso. Ma c’è un’ulteriore risvolto paradossale, che raggiunge il suo apice quando davanti al rifiuto del mito del sangue e della natura, la risposta diventa una nuova dimensione tribalistica che vive e pulsa nel buio di New York, nei magazzini, negli scantinati. Perciò la spirale dialettica continua a vorticare: più volte nella serie ciò che emerge è che l’identità dei protagonisti non è stato frutto di scelta, la scelta – quella sì, vitale, rivoluzionaria, invidiabile e allo stesso tempo ragione della condanna eterna – è piuttosto quella di dichiarare la propria “natura” che anticipa ogni qualsiasi possibilità di scelta: la natura e il destino escono dalla porta e rientrano dalla finestra. Il gruppo fondato proprio dal destino comune fa da argine e garantisce una possibile resistenza e un qualche riscatto sociale.

E qui veniamo al finale della serie: poteva una serie del genere finire? Si tratta di un quesito che appartiene alla stragrande quantità di prodotti seriali, ma qui la fine della serie sembra implicare la fine della lotta – quando sappiamo bene, anche in relazione ai fatti della cronaca, che la lotta è ben lungi dal concludersi. C’è stato negli ultimi decenni una maggiore accettazione in termini politici ma soprattutto sociali? Probabilmente sì, ma c’è ancora moltissimo da fare. Tutto questo emerge negli ultimi episodi della serie targata Netflix?

Charlie Chaplin, nella sua sapiente e inarrivabile capacità di coniugare l’afflato drammatico e struggente all’ironia, per Tempi moderni inserì un finale assai complesso, un finale conciliante, un autentico happy end di matrice hollywoodiana, dove tutto il dolore, l’emarginazione, la miseria vengono trasfigurati e riscattati grazie all’amore autentico dei due protagonisti. Per quanto si viva stritolati dalla macchina del capitalismo e dello sfruttamento, alla fine tutto andrà bene, l’importante è l’affetto che si prova: l’ultimissima inquadratura è il colpo di genio di Chaplin, che si rivela così molto meno ingenuo di quanto si possa pensare, rilanciando il finale conciliatorio e ribaltandolo in ulteriore denuncia nei confronti del mondo. Infatti, l’ultima inquadratura rivela la sua stessa falsità: è una sorta di scenario cartonato, la strada in cui si incamminano i due è palesemente fasulla, come a dire “la conciliazione si ottiene, ma solo nella dimensione della finzione del racconto” e perciò stesso non dall’altra parte dell’immagine, ovvero nella realtà. La valenza appagante della catarsi si piega nella consapevolezza straniante che il dolore e lo sfruttamento nella realtà non sono mai redenti né possono mai venire giustificati o riscattati.

Ci chiedevamo, come finisce Pose? Quello di Pose è per molti dei protagonisti un lieto fine; il penultimo episodio è l’esaltazione del riscatto sociale ed esistenziale di Elektra e di Angel soprattutto. Elektra diventa la regina che ha sempre sognato di diventare e lo diventa introducendosi nel meccanismo del consumo sottraendo ricchezza a chi l’ha oltraggiata per decenni. Così come aveva evidenziato Mark Fisher, il parossismo della ricchezza e l’ostentazione del lusso al punto da diventare trash diventani il modo di far saltare le contraddizioni del mercato iperconsumista. Dopo essere stata trattata come una reietta per anni, Elektra non si presta al combattimento contro quel sistema, ma riesce a entrarci dentro e ci entra grazie alla collaborazione con la mafia italiana – istituto criminale assai più misogino, paternalista, maschilista e retrogrado della società civile comune, e questo è un passo difficilmente digeribile.

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Il riscatto di Elektra passa attraverso l’affermazione e il rafforzamento del sistema che l’ha oppressa e che continuerà a opprimere chi è come lei, per quanto lei spenda il suo impressionante capitale nel tentativo di riscattare le sue “figlie” e amiche. Tutto il penultimo episodio della serie è una narrazione conciliatoria e trionfalistica, il riscatto c’è stato, è tempo di festeggiare dopo tanto dolore e dopo tanta ingiustizia. Ma tutto è talmente circense, esagerato, appariscente, che tale parossismo dalle profondità delle ballroom sembra essere emersa alla luce del sole, quando così non è nella realtà. Tutto il penultimo episodio, compreso il poetico finale sulla spiaggia con Papi che guarda ammirato e commosso la sua famiglia, è un miraggio: anche qui, come in Chaplin, tutto è talmente bello che si fa riferimento al protrarsi dell’incubo nella realtà. Tutto si è risolto per il meglio, sì, ma nella serie e non nel mondo. E forse molte cose avrebbero avuto più senso se la serie si fosse conclusa qui!

L’ultimissimo episodio complica le cose: Pray Tell muore, ma attraverso il sacrifico per salvare un ragazzo molto più giovane, l’uomo che ha amato. Il sacrifico come sappiamo fin dalla tragedia classica è un atto di redenzione che riscatta la morte, anche perché nella serie intanto l’HIV riesce a essere gestito, se non curato definitivamente, in maniera molto più efficace: la salvezza arriva dalla scienza, ma c’è bisogno della lotta politica per permettere a tutti di avere le medicine. Di questo se ne occuperà Blanca, che esce dalle ball per fare l’infermiera e l’attivista. I tasselli del puzzle rientrano tutti nella loro giusta posizione, dopo averne passate tante i sopravvissuti è come se si guardassero e si convincessero che il grosso è stato fatto: il mondo è un posto migliore rispetto a quando era iniziata la serie, nei lontanissimi anni 80.

Il messaggio alle nuove generazioni è che bisogna continuare a lottare, ma il peggio è passato, forse non bisogna neanche lamentarsi troppo a ben vedere. La strada finale in cui si incammina Blanca, con l’inquadratura che sale e immortala come epilogo la strada notturna e fumosa, non denuncia l’irrealtà dell’assunto narrativo, anzi si confonde con la realtà stessa: il rischio della catarsi compensatoria è dietro l’angolo, e sembra mancare il calcio nello stomaco che il regista rumeno Radu Mihăileanu diede a ciascuno di noi alla fine di Train de vie nel 1998.

Proprio in tutto questo, il cerchio si chiude: la serie rasenta nel finale consolatorio la metatestualità, quando per esempio si fa riferimento a Sex & the city è tutto diviene più leggero. La risoluzione delle tensioni e delle pene infinite avviene solo nel fashion e nella serie, ovvero nell’immaginario commerciale, e non altrove. Al rifiuto dell’oppressivo mito dell’identità naturale subentrano nuovi miti, che si presentano come risolutivi: senza disdire quanto viene affermato nella finzione, il carattere ingannevole del racconto si palesa convincendo lo spettatore che un giorno le ingiustizie saranno sconfitte, e che forse quel giorno è persino già arrivato e non ce ne siamo accorti.