La coincidenza tra arte e critica

L’italianista Jean-Paul Manganaro, forse il più stretto degli amici del grande uomo di teatro, pubblica per Il Saggiatore il lungamente atteso Oratorio Carmelo Bene, sintesi delle molte suggestioni accumulate nella sua blasonata carriera di traduttore.

«Nessuno vuol capire che fare dell’arte e fare della critica sono ormai la stessa cosa». Inappellabile, esagerato, così Carmelo Bene dichiarava, registrato da Noël Simsolo, nel 1973, al termine della sua esperienza cinematografica. Quasi cinquant’anni dopo, il traduttore e studioso italo-francese Jean-Paul Manganaro, fresco di uno speciale Premio Franco Quadri, risponde alla provocazione dell’amico con il suo Oratorio Carmelo Bene, il saggio con cui affronta il teatro e, in misura minore, il cinema del grande artista italiano.

Manganaro ha avuto per tre decenni un rapporto privilegiato con Bene. Assieme a Goffredo Fofi e a Giancarlo Dotto, ha fatto parte della cerchia degli amici più stretti di C.B., inavvicinabile per molti altri. Folgorato dalla visione di Notre-Dame des Turcs, invitò Bene ad un convegno sul teatro e da allora rimase in perenne contatto con lui, accompagnandolo in molteplici avventure teatrali tra cui la travagliata tournée in Russia. Fu peraltro Manganaro a tradurre in francese gran parte delle opere letterarie di C.B. – nel mezzo di un curriculum impressionante di traduzioni e curatele, per cui La Repubblica, qualche anno fa, lo ha definito «il re dei traduttori». Se vogliamo davvero leggere l’Oratorio Carmelo Bene come se fosse un’opera d’arte, più che una pièce critica, è proprio al suo linguaggio e alla sua prosa che dobbiamo rivolgerci per dissodare il terreno.

«Carmelo: Carme e Melos, c’era da aspettarselo». C.B. che sul palco trasformava «la lingua in rogo». Guizzi così si dissodano lungo tutto l’Oratorio, rendendone la lettura un’esperienza lessicale notevole. Sono espressioni come quelle che ci ricordano la statura di Manganaro, traduttore italiano, fra gli altri, anche di Artaud. Ma il principale sfondo su cui proiettare l’Oratorio Carmelo Bene è l’immaginario di Gilles Deleuze. L’Oratorio di Manganaro è deleuziano ancora più per prosa, che per contenuti. A un certo punto scomoda anche il termine deleuziano par excellance, “rizoma”, per esprimere la tensione aracnide trasmessa dal volto di C.B. Ciò non è privo di significato perché era stato proprio Manganaro a tradurre in italiano il celebre primo tomo dell’analisi di Deleuze sul cinema, L’immagine-movimento. Soprattutto, era stato Manganaro a far conoscere l’opera di Carmelo Bene a Gilles Deleuze, che si appassionò così tanto del teatro dell’artista italiano da dedicare al suo Riccardo III il testo Un manifesto di meno.

Artaud e Deleuze sono stati due segnavia cruciali nel percorso di Manganaro come studioso e traduttore, ma tutto si può dire ma non che l’Oratorio manchi di un’originalità stilistica, e anche linguistica. Segno di ciò è proprio la sua precisione lessicale, sospesa tra hapax e recupero di termini dimenticati, come quando definisce «oltranza» quella «necessità vitale dell’eccesso» che muoveva Bene tanto sulla scena quanto fuori-scena. Se un limite questo Oratorio Carmelo Bene ha, è proprio l’assenza di uno sguardo esterno, di una esposizione ordinata. Sin dalle prime pagine, siamo trasportati in un labirinto critico, anzi un rizoma prima ancora che un labirinto, perché ciò che è labirintico è squadrato e simmetrico, ciò che è rizomatico invece, è iperconnettivo e radicale. Ma certo non ci si deve accostare all’Oratorio come se fosse un semplice vademecum, un’introduzione all’opera di Bene: se Deleuze rilevava come C.B. facesse un vero e proprio corpo a corpo critico con i drammi shakespeariani messi in scena, Manganaro qui traccia una costante ma meditatissima carezza sull’arte, sui principi, sul volto stesso di Bene.

Al netto di tanti, troppi saggi specialistici su Bene, al di là di un infinito speculare sul concetto di phoné di cui C.B. stesso a questo punto si irriderebbe, le pagine che più colpiscono dell’Oratorio sono quelle in cui affiora il rapporto strettissimo tra l’autore e l’oggetto del discorso ed è qui che Bene si fa ancora vivo. «Ciò che poi, postumo, mi ha impressionato di più, è il pensare che questa sua vita ha sempre seguito il fondamento essenziale della sua arte: devastare il corpo. Il suo corpo, alla fine, era devastato, senza spazio, senza tempo. L’inorganico. Bambino disperato di fronte allo sconosciuto. Il mistero nella creazione artistica è possibile solo perché “tutto il resto” è stato condotto con un’idea precisa della propria perfezione». È in questi passaggi, quando Manganaro lascia scorgere evidentissimo la coincidenza tra arte e vita nell’esistenza di C.B., che emerge anche la coincidenza tra critica ed arte nel saggio di Manganaro. Nelle parole, nella cura evocativa delle parole che Manganaro adopera lungo tutto il saggio emerge molto più nitidamente la potenzialità paradossale di una phoné letteraria, sospesa tra Bene e Derrida, che tanti saggi invano hanno provato a parafrasare, essendo il concetto per C.B. affrontabile unicamente nella pratica della scena.

«Non bisogna fare capolavori, bisogna essere capolavori» è una delle frasi di Bene citate più a sproposito, a vuoto, finanche tradotta in un improbabile inglese: con queste righe, del penultimo capitolo del libro, Manganaro testimonia come C.B. sia stato tra i pochi artisti a potersi vantare di aver raggiunto la proverbiale coincidenza tra l’arte e la vita, fino ad approdare a una paradossale confidenza tra l’arte e la morte. Il racconto sentito e concreto dell’agonia di Bene malato di cancro lo si potrebbe trovare in Cominciò che era finita, il memoir della sua ultima compagna Luisa Viglietti: con l’Oratorio Carmelo Bene, Manganaro trascende questa morte, riesce nel non facile compito di ricondurla a una consapevolezza critica.

«I traduttori che ho potuto frequentare erano più intelligenti e interessanti degli autori che traducevano. Occorre più riflessione per tradurre che per creare», scrisse una volta Cioran. Manganaro, per chi lo legge e per chi ha la fortuna di assistere a uno dei suoi rari incontri pubblici, incarna sia questo aforisma sia un’altra, altrettanto lapidaria, affermazione di Bene: «non sarà mai più concepibile una CRITICA che non sia al tempo stesso OPERAZIONE CRITICA, ma OPERAZIONE CRITICA TAUMATURGICA, cioè OPERA D’ARTE», sicché risulta «finalmente sciocco e futile circuire, seguire ostinati a circuire un “AL DI FUORI DI SÉ” con delle RECENSIONI…».

Oratorio Carmelo Bene
di Jean-Paul Manganaro
Il Saggiatore (Milano)
pp. 184