Ritratti d’autore

L’arancio di Lorenzo Santangelo (Premio della Giuria e Targa SIAE), Animale Sleale di Simone Cocciglia (Targa Repubblica al Premio De André), Dolce Universitaria di Melga, Paracadute di Amaranto, Mi piove anche nella birra di Andrea Strange, Il giardino dei Finzi Contini di TheMorbelli, Io sono meno inglese di thè di Luca Fol e Peccato viaggia di Fogg sono stati i protagonisti della finalissima del Premio De André, evento andato in scena all’Auditorium Parco della Musica di Roma con il patrocinio della Fondazione Fabrizio De André Onlus, il supporto di SIAE, l’organizzazione di iCompany e la direzione artistica di Luisa Melis. A ricevere il prestigioso riconoscimento anche Pietro Nicolaucich (Sezione Poesia, Le malecose) e Sidra (Sezione Pittura, Donna con burqa), Daniele Silvestri (Targa De André) e Neri Marcorè (Premio Quelli che cantano Fabrizio). A condurre la serata, che ha avuto come star guest la straordinaria Ilaria Pilar Patassini, è stato Paolo Talanca, scrittore, critico musicale, nonché esperto di popular music e del rapporto tra canzone e nuovi media, al quale abbiamo rivolto alcune domande sul Premio, sull’eredità di De André e sullo stato dell’arte della canzone d’autore italiana.

Può introdurre i nostri lettori al Premio De André, sui criteri di selezione e sui valori di riferimento, soffermandosi sul perché, durante la serata di premiazione all’Auditorium Parco della Musica di Roma, ha definito l’edizione di quest’anno “speciale” e un “unicum”?
Paolo Talanca: «Il Premio Fabrizio De André è una manifestazione che porta avanti i valori artistici di Fabrizio De André, la sua attitudine nell’approccio all’arte della canzone e all’importanza della valorizzazione della creatività sotto ogni forma, non ultimo l’incontro tra le differenti discipline artistiche. Quest’anno è stato speciale per i motivi che tutti conosciamo: fare questa edizione, con tutte le defezioni, contagi, quarantene e assenze – ma sempre nel massimo della sicurezza e dei protocolli sanitari -, è stato un simbolo di resistenza e un segnale come a dire che il teatro e la cultura devono essere le ultime cose a fermarsi in situazioni del genere».

Rimanendo all’edizione 2022, qual è il suo bilancio rispetto alla partecipazione e alla qualità espressa da cantautori e cantautrici desiderosi di confrontarsi con un premio dedicato a colui che è tra i maggiori esponenti della canzone d’autore italiana?
PT: «Il bilancio è ottimo. Il livello quest’anno era altissimo; i venti semifinalisti venivano fuori da una selezione di oltre 1.300 proposte. Numeri da non credere. Ho notato una cosa in particolare: a mio parere, il vincitore Lorenzo Santangelo dà il meglio di sé dal vivo. Ha ovviamente mandato brani molto validi anche ascoltati su disco, ma ricordo benissimo la prima volta che alle semifinali lo ascoltai dal vivo: estremamente trascinante. E poi ha vinto, con una bellissima canzone che si intitola L’arancio. È la dimostrazione del fatto che niente sostituisce l’esibizione da palco, l’incontro tra sensibilità, la musica dal vivo e in presenza».

Il Premio De André si rivolge non solo alla canzone d’autore, ma anche ad altre modalità espressive e linguaggi, dall’arte visiva alla poesia. Perché inserire anche questi premi?
PT: «È da sempre la bandiera della direttrice artistica Luisa Melis, e credo sia una bella intuizione, perché De André ha dimostrato nella sua carriera di essere anche un grande regista tra le arti, partendo dall’incontro tra la musica e la poesia, la canzone con le differenti sonorità che facevano nascere i suoi dischi. L’arte visiva nella veicolazione mediatica si abbevera di quell’immaginario collettivo che è alla base di una canzone, alla base della popular music. Oggi non credo siano proponibili i muri e i compartimenti stagni, soprattutto alla luce delle nuove tecnologie. I grandi artisti ci arrivano prima».

Ivano Fossati, nel ricordare con la consueta discrezione l’amico e collega in occasione del decimo anniversario dalla scomparsa, affermò la necessità di “sfuggire all’aneddotica prêt à porter cui vengono fatalmente adattate le figure dei grandi artisti quando non sono più in grado di confutare o di precisare”. Quella di De André è la storia di un artista capace di riunire, in parole e musica, l’alto della riflessione filosofica e il basso delle passioni umane: a suo parere, perché la sua poetica può dirsi unica nel panorama musicale italiano? Pensa che esistano analoghi in campo europeo o internazionale?
PT: «È unica per via della sensibilità particolare di De André passata al vetrino della sua poetica. In fondo la canzone d’autore è questo: una comunità preserva e valorizza i suoi figli migliori, le sue maestranze, il punto di vista strabiliante di chi ti fornisce una visione differente della realtà. Non è mai innocua o inerte, la grande musica e la grande canzone. Analoghi in campo europeo o internazionale? Certamente: Dylan, Cohen e chissà quanti altri. Ognuno a proprio modo, con il proprio immaginario da restituire, con la propria società da raccontare, con la propria poetica. Questa è la parola chiave su cui si è riflettuto poco secondo me: poetica. Oggi si possono storicizzare i grandi autori, creare canoni artistici, indagare il saper fare dei migliori. Oggi come non mai la riflessione artistica deve essere fiorente e deve andare a braccetto con la creazione».

In che condizioni versa, a suo avviso, la canzone d’autore italiana contemporanea?
PT: «La canzone sta benissimo, come mille anni fa. La mediaticità che dovrebbe promuoverla invece boccheggia barbarie, perché la scuola e l’accademia non sono più al centro della società».

photo by Raffaella Vismara