Ritratti d’autore

Giuseppe Bonifati è attore, autore e regista. Ammirato in Ferrari di Michael Mann, classe 1985, vive ormai stabilmente in Danimarca, dove è artista e regista all’Odin Teatret, lo incontriamo per “riprendere” un discorso iniziato nel 2013, a Castrovillari, dove presentava il suo libro 21.31 (mi sento morire) e lo scoprimmo (anche) come poeta di evasione, che cantava  la morte dei sogni, tra speranze e disincanti, alla maniera di Baudelaire, Rimbaud, Leopardi. Cerchiamo di capire insieme chi era e chi è diventato ora.

Giuseppe Bonifati: «Sono ancora un poeta, ma molto disincantato, prendo la vita con più leggerezza rispetto ad allora. Il lavoro e le responsabilità sono aumentate e queste mi hanno reso un instancabile viaggiatore, oltre a rimanere un irriducibile sognatore. Negli ultimi dieci anni, ho attraversato come un gatto più di sette vite alla ricerca di un’identità artistica. E ne ho scovate numerose altre, per un teatro dell’alteritá. Attraverso una serie di lavori artistici e creativi, ci siamo concentrati sull’essere altro da noi, partendo dalla formulazione del filosofo francese Emmanuel Lévinas: “Autrui se nomme visage”. Con il nostro ensemble internazionale, abbiamo ricoperto diversi ruoli sociali creando un campo di tensione tra l’arte e la società. Abbiamo interagito in Danimarca e nel mondo, sulle ali della fantasia e della creatività, come politici, agenti di polizia, paramedici, attivisti, guardiani di musei d’arte, etc. Con l’obiettivo di creare nuove comunità e riscoprirle attraverso il contatto quotidiano con l’arte e la cultura».

Nasce, infatti, come attore di teatro, ha avuto maestri importanti, come Giuseppe Maradei, ha frequentato la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali. È stato anche protagonista di spettacoli e performance teatrali e artistiche. Come dialogano queste tue passioni tra arte contemporanea, cinema e teatro e quale è predominante?
GB: «Personalmente, come artista, non faccio differenza tra teatro, performance e arti visive, ma cerco invece di capire come l’influenza creativa dell’una possa contagiare l’altra, quanto e in che modo i rispettivi linguaggi siano correlati.
Nel processo di creazione mi ha sempre interessato la drammaturgia come punto di partenza, ma da diversi anni i miei lavori seguono un nuovo percorso dove le immagini prevalgono sulle parole. Coinvolgo nei miei spettacoli o performance il corpo dell’artista o dello spettatore, o entrambi. Ugualmente faccio nel lavoro su me stesso come performer, in cui cerco di svelare, attraverso i sensi, il mio immaginario più recondito. Non mi interessa il virtuosismo. Ciò che mi affascina è incontrare persone che siano in grado di creare ed esprimere attraverso l’arte le proprie personali inquietudini.
Costruire un’opera “contemporanea” è alquanto difficile, tanto che quasi nessuno vi riesce pienamente, me compreso. Quindi lavoro ogni giorno per risolvere questo dilemma e alleno la mente a produrre idee sempre nuove, con un occhio al teatro d’arte dal quale provengo».

In Ferrari interpreta Giacomo Cuoghi, amico manager e confidente di Enzo Ferrari. Il film, è stato al centro di importanti note critiche, che hanno riguardato soprattutto l’attore protagonista Adam Driver e Penelope Cruz. Com’è stato lavorare con queste due grandi stelle di Hollywood per un italiano che ha vissuto la grande storia della Ferrari?
GB: «Il fatto che Michael Mann abbia deciso di mettermi accanto ad Adam Driver e Penélope Cruz per la lettura del copione ha sicuramente contribuito a rompere il ghiaccio prima dell’inizio delle riprese ed è stato anche indice di quanto lui considerasse questo ruolo e di quanto Giacomo Cuoghi fosse vicino a Enzo Ferrari. Riguardo alle polemiche, penso sia limitato assumere un attore solo in base alla sua provenienza. Alcuni attori sono più adatti a un personaggio piuttosto che a un altro, senza dubbio. Il primo obiettivo in un film però è individuare un artista cosmopolita che sappia proporsi al pubblico senza confini mentali o fisici. Non vedo perché dovrebbero esserci dei limiti dati dalle proprie origini, trovo invece più stimolante allargare il ventaglio delle possibilità agli accostamenti inaspettati che il cinema e l’arte possono produrre. Penso che sia ottimo che il film possa essere visto in così tante nazioni creando un pubblico eterogeneo, internazionale.
D’altronde il marchio Ferrari é già di per se un enorme biglietto da visita dell’Italia nel mondo. Nel rosso dell’auto e nel giallonero del logo ritroviamo visione, azione, estetica, che sono tratti distintivi anche di questo nuovo film di Michael Mann».

“Per essere giusti bisogna essere dimenticati da Dio”. È da credere ancora nonostante la carriera a Hollywood e la collaborazione con due grandi registi come Ridley Scott e Michael Mann?
GB: «Forse bisogna essere toccati da Dio. La mano di Dio può essere allo stesso tempo quella di Maradona o quella del Michelangelo, croce e delizia, come avviene per l’arte e il cinema.
Questa é stata la mia seconda partecipazione in un film hollywoodiano di alto livello (dopo All the money in the world) e la serie della BBC US (con Tom Hollander), potrei quasi dire che è stata una masterclass, lavorare con un regista così meticoloso come Mann, che ha cura di ogni singolo dettaglio: una postura, la tensione di un gesto o il modo di afferrare un oggetto in modo non scontato. Michael Mann è come uno scultore dietro la macchina da presa, che cesella con minuzia le immagini in movimento. È un regista che riesce a ottenere ciò che vuole, che lascia spazio alla creatività dell’attore, ma allo stesso tempo ti guida, proprio come a bordo di un’auto sportiva. È lui al volante e insieme ci si muove nella direzione stabilita. È ammirevole che Mann sia riuscito a realizzare questo film dopo quasi vent’anni. Per il mio lavoro di regista, farò sicuramente tesoro di questa lezione, così come quella di Ridley Scott, più istintivo nel dirigere gli attori e lasciare loro libertà espressiva».

Ha fondato il Det Flyvende Teater/Il Teatro Volante, il primo teatro con base all’Aeroporto internazionale di Billund. Come mai la scelta della Danimarca per questo progetto e non la Calabria?
GB: «Ho passato pochissimo tempo in Calabria negli ultimi dieci anni, soprattutto dal punto di vista artistico, essendo stato molto impegnato con numerose creazioni e tour in oltre venti paesi nel mondo. Ho provato a riconnettermi dal punto di vista teatrale con un testo e uno spettacolo ancora inediti, ma non ho avvertito una grande risposta dei festival, dunque ho continuato a creare altrove sulle nuvole, in attesa di nuove primavere.
​Il Teatro Volante è un format di performance unico al mondo che è iniziato tre anni fa come progetto pilota all’aeroporto di Billund (Danimarca, io e Linda Sugataghy, ci siamo persino sposati lì). Lo scorso anno abbiamo allestito un teatro studio al suo interno. Il nostro team di attori, cantanti e danzatori interagisce come una compagnia aerea con i passeggeri di tutto il mondo, sorprendendoli con esperienze artistiche uniche e indimenticabili: opera e performance ai gate, nei terminal, al deposito bagagli, a bordo di voli selezionati; eventi teatrali o di danza negli hangar, come un´originale versione del Gabbiano di Cechov, presentata quest´anno anche a Timisoara 2023 – Capitale Europea della Cultura.
Stiamo esportando il format all’estero e siamo partiti dai paesi nordici con tour in Svezia, Finlandia e Islanda, intrecciando anche una conversazione sulle diverse esperienze in Europa per combattere la paura del volo e aiutare a ridurre lo stress da viaggio attraverso l’opera e il teatro. In Italia siamo in contatto con un bel progetto a Palermo e speriamo di riuscire a concretizzare per il 2024».