Ritratti d’Autore

Las memorias perdidas de los àrboles è reduce dal premio al miglior cortometraggio assegnato ad Antonio La Camera dalla 38ma Settimana Internazionale della Critica, rassegna parallela alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, organizzata dal Sindacato nazionale critici cinematografici italiani in collaborazione con la Biennale, che quest’anno si è particolarmente distinta per il notevole successo di pubblico e la qualità dei materiali in concorso.

La giuria, composta da tre professionisti dell’industria cinematografica, Nicoletta Romeo, Eddie Bertozzi, Matteo Tortone, ha motivato l’assegnazione al cortometraggio vincitore «per aver immaginato un’esperienza sensoriale, un viaggio allucinogeno, una vertigine psichedelica. Ma soprattutto per averci condotto attraverso un’esplorazione emotiva intensa, che commuove e meraviglia, trascendendo il dato di natura fino al cuore umanissimo della sofferenza e della perdita».

Antonio La Camera ha un “volto” che incrocia culture diverse. Di origine calabrese, castrovillarese puro, ma si evince poco dall’aspetto, misticamente orientale, nei capelli neri e lunghi che ricordano la libertà e lo spirito selvaggio delle popolazioni d’oltreoceano. Un artista dallo sguardo profondo che tocca la verità delle cose nella loro disarmante semplicità e la ripropone al pubblico con una visione espressionista da togliere il fiato.

Direttore artistico del Castrovillari Film Festival, insieme al compositore Francesco Sottile, regista, giovane ma già valoroso filmmaker, ha ancora addosso l’emozione viva per il riconoscimento ricevuto. Lo abbiamo intervistato in occasione della proiezione del suo lavoro all’I-Fest, International Film Festival, a Castrovillari, dal 7 al 17 settembre.

Citando Paul Gauguin: da dove viene, chi è e dove va Antonio La Camera?
Antonio La Camera: «Sono Antonio La Camera, nato a Castrovillari e trasferito a Roma all’età di 18 anni per studiare cinema. Mi sono iscritto all’università, frequentato il DAMS e poi la scuola di cinema Sentieri Selvaggi e da lì ho iniziato il mio percorso, a capire pian piano quello che mi interessava esplorare, sia a livello formale, sia di tematiche, anche se a me non piace parlare di tematiche nel cinema, trovandolo forse per la prima volta nel corto Carne e polvere, girato qui con protagonista mio padre, a cui ho seguito Il sogno del vecchio, con protagonista mio nonno e Nel ritrovo del silenzio. L’ultimo, Las memorias perdidas de los àrboles, è un po’ la summa creativa di tutte queste esperienze, nella loro forma più essenziale».

Tornando agli anni della sua formazione, penso siano stati decisivi quelli dell’università, chi sono stati i suoi maestri e i suoi modelli sul grande schermo?
ALC: « Sicuramente è stata fondamentale la scuola di Sentieri selvaggi e il rapporto con il docente e amico Toni Trupia, con cui abbiamo lavorato insieme. Sono cresciuto con i film di Spielberg, in generale col cinema americano, poi all’università ho scoperto Andrej Tarkovskij, Béla Tarr, il cinema più autoriale europeo».

Quanto c’è della sua storia, della sua personalità nel cortometraggio Las memorias perdidas de los àrboles?
ALC: « Tutto è nato da un workshop, CreatorsLab, a cui ho inviato la mia richiesta di partecipazione, dove è stata fatta una selezione di 50 registi che sono stati chiamati in Perù a girare il proprio cortometraggio. Essendo stato selezionato, sono partito e ho girato in quei luoghi, sotto la guida di Apichatpong Weerasethakul, regista thailandese Palma d’oro nel 2010, che ci ha svelato il tema da sviluppare la prima sera del workshop, quello di una conversazione. In dieci giorni abbiamo girato e poi montato, in una situazione in cui sei chiamato a essere soprattutto molto istintivo per fare fronte a richieste che ti mettono inizialmente con le spalle al muro in un contesto di totale libertà creativa e di mancanza di competizione, all’insegna della condivisione e del dialogo, ognuno secondo la propria sensibilità».

Questo lavoro, ambientato nella foresta amazzonica, è una conversazione tra gli alberi, immersa in uno spettacolare paesaggio notturno. Il loro dialogo come fratelli che ricordano i tempi di quando erano bambini ha una forte componente emotiva segnata dal senso di colpa di uno dei due e lascia il segno di una bellezza che inquieta e allo stesso tempo commuove, nell’ottica di un’immaginazione che combina parola, suono e visione.
Quanto c’è delle sue memorie d’infanzia e del suo cuore in questa conversazione?
ALC: « C’è sicuramente il rapporto con mio fratello, a cui è dedicato questo lavoro, quel non-detto che c’è stato in una vita precedente a cui fa riferimento il film, e che poi in qualche modo si risveglia quando trovi il coraggio di dire qualcosa, che avresti voluto dire quando c’era la necessità. Il film è centrato soprattutto sul come esprimere i nostri sentimenti possa aiutarci nella quotidianità a stare bene e come sia sempre importante dirsi tutto per sanare delle ferite, perché ti costruisci anche da solo, quando non dai voce a quello che senti e non ti senti libero di farlo».

La sua narrazione fa un potente riferimento al mondo dell’inconscio, che è rappresentato dai demoni, ma anche dalle stelle. Davanti all’immensità il demone cade in silenzio. Qual è quest’immensità?
ALC: « Nel corto, le stelle sono la rappresentazione dell’immensità, la condizione in cui ti senti allineato con qualcosa, come quando vai in apnea sott’acqua e ti lasci alle spalle il mondo di sopra. Questa sensazione per me è data dal vivere nel presente e liberarsi del passato, ma anche dal vedere un’opera d’arte che ti tocca e ti fa vivere uno squarcio improvviso di coscienza unico di quel momento. Il cinema ha questa potenzialità, come del resto, tutta l’arte».

Prossimi progetti e sogni per il futuro?
ALC: «Un cortometraggio da girare tra Castrovillari e Saracena, tra novembre e dicembre, promosso dal Ministero della Cultura e Calabria Film Commission».