Spazio Giovani

Luca Ligato debutterà il 20 febbraio, come regista di L’Ombelico di Alvise, al Cicco Simonetta di Milano. La prima domanda sembra, quindi, d’obbligo – essendo un volto e una mano registica sconosciuti ai più: cosa lo ha spinto verso il teatro e quando è nata la sua passione per questo mestiere?

Luca Ligato: «La passione per il teatro c’è sempre stata: sin da quando, da piccolo, la domenica pomeriggio i miei genitori mi portavano a vedere gli spettacoli. Piano piano questo interesse è cresciuto insieme a me. La regia, al contrario, è entrata nella mia vita in tempi recenti: prima attraverso il lavoro di Ferdinando Bruni – rivelanti per me, La Tempesta, tra gli spettacoli più belli che io abbia mai visto, e Come gocce su pietre roventi – poi in università con Massimo Puliani, il mio docente di Istituzioni di regia – che mi ha mostrato sfumature che non conoscevo, spingendomi a seguire questa strada – e, infine, ma non per importanza, grazie a Corrado d’Elia, che ha creduto in me e ha voluto mettermi alla prova dandomi la possibilità di seguirlo nel suo lavoro come suo assistente alla regia, concedendomi spazio e aiutandomi a capire meglio il linguaggio e i meccanismi teatrali».

Le piacerebbe lavorare anche per il cinema o per la tv, oppure pensa che il teatro sia la forma di spettacolo che meglio la rappresenta?
L. L.
: «Il teatro è il mio primo amore ed è la forma di spettacolo che sicuramente sento maggiormente vicina a me – sulla pelle, direi. Non mi spiacerebbe e non escludo – e qui faccio un appello ai lettori  – che se mi si presentasse l’occasione, accetterei volentieri la sfida mettendomi a confronto con questi due mezzi di comunicazione che hanno una fruizione tanto diversa da parte del pubblico. M’interessa infatti molto la comunicazione e vorrei approfondire lo studio sia del cinema sia del piccolo schermo – oltre che dei loro meccanismi per poter raccontare una storia. Quindi, se qualcuno che volesse farmi un’offerta… mi trovate al 338 94…» (e ride: n.d.g.).

Quale attore le piacerebbe dirigere?
L. L.
: «Effettivamente è una cosa alla quale non ho mai pensato. È il personaggio che pretende un interprete in particolare per dargli corpo e voce (una visione un po’ pirandelliana, ammetto). In Italia abbiamo molti bravi attori e attrici, alcuni anche famosi. Mi piace (e lo dico pensando in grande) Filippo Timi, ad esempio, perché ritengo che sia un interprete – e anche regista – molto creativo, che lavora sui suoi personaggi, restituendoli al pubblico in maniera credibile e singolare anche quando sono contestualizzati in una dimensione surreale e, soprattutto, che ha saputo sfruttare al meglio le sue debolezze facendole diventare altrettanti punti di forza».

Qual è il genere a cui si ispira? E c’è un regista al quale fa particolarmente riferimento?
L. L.
: «Non c’è un collega in particolare al quale m’ispiro nel mio lavoro, ma ce n’è più di uno che è stato importante nella mia formazione: Corrado d’Elia, in primis, con il quale ho collaborato per la realizzazione di diversi spettacoli in qualità di assistente alla regia e con il quale ho avuto, per la prima volta, la possibilità di mettermi alla prova e di confrontarmi con con questa professione, anche in maniera autonoma. Ho imparato da lui e con lui quali sono i meccanismi del teatro e tutto quello che gira intorno a uno spettacolo. Spesso, infatti, mi sono trovato a elaborare anche intuizioni scenografiche, trovando il modo di concretizzare l’idea registica, da una parte, e imparando, dall’altra, a metabolizzare gli stimoli che mi venivano forniti dall’esterno fino a farli miei per poi restituirli in una nuova forma. Gli spettacoli di Ferdinando Bruni e le sue regie – mai troppo invadenti, ma dove è sempre possibile riconoscere la sua mano – mi hanno avvicinato per prime a questa professione. Apprezzo il lavoro drammaturgico e di traduzione che opera Bruni sui testi e il modo in cui riesce a unire il classico con il contemporaneo, senza mai eccedere. Sento i suoi spettacoli a me molto vicini, soprattutto nel modo in cui affronta i temi che prende in esame, i rapporti umani o generazionali, in primis. A questi due artisti dovrei aggiungerne molti altri dei quali non mi perdo uno spettacolo, ma credo che finirei per dilungarmi troppo e già immagino la voglia dei lettori di leggere dei miei più o meno consapevoli “Padri teatrali”».

Quale spettacolo vorrebbe portare in scena?
L. L.
: «Mi piace indagare nell’intimo umano in cerca di quella che è la sua vera essenza: l’intimità, le pulsioni viscerali, i pensieri inconfessabili, alla scoperta di quanto non abbiamo il coraggio di mostrare agli altri e che si cela dietro le regole che la società, soprattutto odierna, impone. E poi quello che vorrei rappresentare non ve lo dico, altrimenti mi copiate l’idea…».

So che ha ricevuto diverse proposte come attore. Ha mai pensato di cimentarsi in questa veste?
L. L.
: «Qui qualcuno ha fatto la spia! Credo che sia importante per chi voglia seguire un percorso registico conoscere e mettersi nei panni degli attori, vedere e comprendere lo spettacolo dal loro punto di vista – come da quello dei tecnici. Per questa ragione ho sempre studiato come rivestire al meglio qualsiasi ruolo teatrale. E anche qui facciamo un appello… Luca Ligato: cell. 338 94…» (risata, n.d.g.).

Veniamo al suo spettacolo. Cosa l’ha spinta a scegliere come sua prima regia L’Ombelico di Alvise?
L. L.
: «Quando ho letto il racconto di Claudia Porta ho immediatamente ritrovato il mio mondo nei suoi personaggi e nel suo modo di scrivere. Quello che mi ha colpito leggendo il testo sono le tematiche: i rapporti relazionali tra uomo-donna e con il proprio io, la paura di affrontare l’altro, ma anche il coraggio di crescere e di diventare se stessi. Con Claudia si è creata da subito una bella alchimia e così, dopo averla contattata, abbiamo iniziato subito a lavorare insieme al testo per fare emergere dalla messa in scena la mia visione della realtà e della società contemporanea».

Può raccontacela in breve?
L. L.
: «Senza svelare troppo: l,o spettacolo è la storia di un amore e… di un ombelico, una pièce soave e malinconica che racconta di due ragazzi – Alvise e Gala – delle loro paure e della difficoltà di rapportarsi con il mondo reale. In breve, è la storia di due giovani che cercano una propria dimensione di vita».

Come ha scelto i due protagonisti e perché?
L. L.
: «Con entrambi avevo avuto modo di lavorare in altri progetti e avevo già avuto modo di conoscerli come attori. Ho scelto Alessia Bedini (che, nello spettacolo, è Gala – n.d.g.) perché mi ricordavo dei suoi lunghissimi capelli rossi e Stefano Pirovano (Alvise, n.d.g.) perché un po’ paffutello. Notevole è stata la mia mia sorpresa quando, alla prima lettura del copione, si sono presentati, la prima, castana e, il secondo, con tre taglie in meno! La prima cosa che ho pensato è stata: “Perfetto… Cominciamo proprio bene!”. Scherzi a parte… Avendo già avuto la possibilità di lavorare con loro in progetti precedenti e avendo imparato a conoscerli e ad apprezzarli come attori, in Alessia ho subito riconosciuto la spontaneità e la forza di
Gala, mentre in Stefano ho visto la semplicità e la purezza di Alvise»..

Quale linea registica ha tenuto in questo spettacolo?
L. L.
: «La parola chiave dello spettacolo è “bidimensionalità”: il tempo e lo spazio non esistono e non procedono in maniera lineare, mentre gli attori si muovono esclusivamente su un piano frontale o laterale. Ho deciso di rompere la realtà per poterla raccontare e giocare, nel contempo, con la sua inesistenza. Cos’è in fondo la realtà se non un insieme di regole e precetti che costringono i nostri sentimenti in una morsa troppo soffocante per dare spazio all’abbandono dei sensi? Una realtà alla quale Alvise e Gala si accorgono di non voler più appartenere».

Può sembrare una domanda banale ma cosa significa per lei questo spettacolo?
L. L.
: «Un punto di partenza, un inizio: essendo la prima regia della quale devo assumermi totalmente la responsabilità e dove ho la avuto la possibilità di mostrare la mia visione della realtà. Per me fare teatro è proprio questo, ossia: non tanto rappresentare un testo, ma avere la possibilità – attraverso un testo altrui – di mostrare la nostra visione del mondo, costringendo lo spettatore a interrogarsi su quella che è la nostra realtà, con tutti i suoi temi e problemi. Per mia fortuna in questa avventura ho avuto accanto tante persone che mi hanno aiutato e supportato, credendo con me ne L’Ombelico di Alvise, investendo il loro tempo e la loro professionalità per realizzare questo progetto “a km zero”. E anche per questo motivo ho da subi
to avuto la consapevolezza di dover assumermi la responsabilità di ogni aspetto del lavoro e della sua buona riuscita».

Ci racconta lo spettacolo con tre immagini, così al volo?
L. L.
: «Un’assordante stanza bianca. Un cerchio. Un nastro rosso».

Quali pensa siano i punti di forza dello spettacolo?
L. L.
: «Questa è una domanda interessante che potrebbe essere posta alla fine delle visione direttamente al pubblico. Io spero che il suo punto di forza sia la sua messinscena. Ma per questo dovremo aspettare il 20 febbraio, quando finalmente debutterà, e per chi è impegnato quel giorno, niente paura: sono già in programma altre date sia a Milano sia altrove…quindi niente scuse del genere: “Io non potevo”… c’è una data di Alvise per tutti!».