Madre e Padre fra trascendenza e cinismo nell’immaginario seriale contemporaneo

Sarebbe superfluo e pressoché risibile segnalare come una vasta parte della produzione neoseriale degli ultimi anni insista particolarmente sulle categorie di paternità e maternità; d’altronde siamo alla base dell’immaginario archetipico della storia umana, il fulcro dell’antropologia che è al contempo anche l’essenza di ogni costruzione narrativa fin dall’antichità.

Caratteristico dell’immaginario neoseriale degli ultimi anni, in consonanza con la liquidità e la ridefinizione postmoderna dei riferimenti sociali e culturali, è il ripensamento delle categorie di maternità e paternità: la madre e la padre sono sempre più presenti, sembrerebbe soprattutto nei termini di uno sconvolgimento semantico e simbolico. Ma è proprio così?

D’altronde, se ci riferiamo al fatto che la Madre oltre ad accudire può distruggere i propri figli, e perciò oltre a generare vita può anche essere la prima minaccia, questo ce lo aveva raccontato all’incirca 2500 anni fa Euripide con Medea; come ci ha insegnato in anni più recenti Werner Herzog in Grizzly Man, uno dei peggiori errori di antropomorfizzazione da parte dell’uomo è affibbiare agli animali un senso di maternità e di paternità che sia equivalente a quello umano (Disney complice ovviamente).

Perciò Madre e Padre sono da subito una voragine di senso, un inquietante baratro da cui proveniamo e che prospetta la nostra crescita mentale in ognuno dei nostri passi. Inutile perciò scomodare Freud, Jung, la psicoanalisi, diciamo solo che forse l’approccio più appropriato e meno presuntuoso è quello di prendere in considerazione alcuni titoli che negli ultimissimi tempi hanno recuperato le tensioni concettuali che appartengono alla Madre e al Padre, non tanto per rivoluzionarle quanto per restare nel binario segnato dalla cultura occidentale.

L’horror domestico Servant, che si ispira alle atmosfere terrificanti e silenziose di Rosemary’s Baby, vuole presentarsi come il tentativo di riscatto da parte di M. Night Shyamalan. Soprattutto la prima stagione, il kammerspiel firmato da Tony Basgallop fa della casa un luogo infernale e stregato: l’insistenza su elementi dettagliati riflette un’idea di maternità deviata, talmente eccessiva da capovolgersi in follia e in autoconvinzione inconscia che scambia immaginazione e realtà. Quando la madre si rende responsabile della terribile morte del proprio figlio neonato, allora la creazione di simulacri come la bambola reborn non è che un elemento della ridefinizione mentale che rifiuta violentemente la verità dei fatti. Il Padre, per quanto stremato dal dolore, non ha che una funzione: assecondare il delirio infernale della moglie fino a commettere dei reati. Il marito è d’altronde l’emisfero sinistro, quello della calcolabilità, della logica, che si riflette nella professione dello chef che misura, calibra, dosa come un chimico, proprio per generare dei sapori inaspettati.

In Raised by Wolves – firmata da Aaron Guzikowski e Ridley Scott – sono proprio Madre e Padre gli androidi a cui è stata consegnata la missione di far sopravvivere la specie umana. Un Padre, anche qui, artificiale (come d’altronde lo era Giuseppe nella leggenda cristiana, che non era generatore del seme seppur fosse figura di riferimento della crescita del Salvatore), che però è programmato per educare i bambini. Madre è stata programmata per accudire i figli ma senza aver smarrito la sua funzione originaria, ovvero quella della terribile Negromante che ha sterminato la specie umana e che adesso è disposta a continuare a uccidere per difendere i propri figli, i propri cuccioli. E tuttavia il figlio che porterà in grembo è un mostro che sembra voluto da Dio (Sol) in persona proprio per spazzare via una volta per tutte la razza umana.

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La genitorialità redime? L’amore dei genitori riesce a riscattare il male e a ricollocare le cose al giusto posto? Lo sforzo indomabile, inarrestabile, infinito per risolvere problemi e storture, come per esempio fare di tutto per essere dei “bravi genitori”, basta a diventare veramente dei bravi genitori? Diciamo meglio: lo sforzo indomito e superumano di proteggere il proprio figlio, garantisce la riuscita dell’impresa?

L’immaginario narrativo hollywoodiano così come quello seriale spesso ce l’hanno raccontato in questi termini positivi: il sacrifico dei genitori redime e permette al figlio di sopravvivere, di risolvere le proprie drammatiche condizioni. Si tratta del sacrificio del padre per il figlio, visto così tante volte: la morte che porta vita, estrema manifestazione di amore, ed è in questo che il Cristo può essere considerato il padre di ciascuno.

Tutto ciò lo ritroviamo nel sacrificio estremo di Walter White per Jesse Pinkman nel finale di Breaking Bad: non certo il figlio biologico, intendiamoci, ovvero l'”omonimo” Walter White Jr. che a causa della paralisi avrebbe richiesto un padre come Heisenberg piuttosto del mediocre, affettuoso e mite professore di chimica. Ma si tratta di due “padri” diversi che riflettono la duplicità e l’ambiguità dell’identità di Walter White: è Heisenberg a morire per Pinkman (Walter White è morto già da tempo) per salvarlo dall’inferno  e concedergli la fuga.

Un padre che si sacrifica per il figlio: innumerevoli sarebbero gli esempi, uno tra tutti – da citare per impatto iconico – il gesto eroico di Harry in Armageddon.

Ma cosa accade nell’immaginario più recente, tornando a fare riferimento proprio e nello specifico all’ambito seriale? Saranno i tempi catastrofici che stiamo vivendo, ma sicuramente il cinismo ha amplificato la propria azione: il realismo diventa spietato, netto, terribile. Gli sforzi e i tentativi di risolvere, riparare, persino vendicarsi, non è detto e non è scritto da nessuna parte che portino da qualche parte, come non è scritta da nessuna parte che una redenzione potrà darsi effettivamente. Siamo stati abituati troppo bene da Hollywood e dall’immaginario televisivo per crederlo, e ancora oggi la logica dell’happy end ancora imperversa.

Uno sguardo perciò spietato, arcigno, sull’irredimibilità del reale: questo è il finale lancinante, fulmineo, scioccante di Your Honor, produzione HBO firmata Peter Moffat giunta recentemente al termine. Un finale traumatico, che ricalibra l’intera serie che abbiamo visto nel corso di 10 puntate. Non è un caso d’altronde che torni Bryan Cranston: nuovamente padre indomito pronto a compiere gesti estremi per salvare la vita del figlio. E tuttavia, mentre per salvare il “figlio acquisito” Pinkman Heisenberg cede la propria vita – seppure si tratti di una semi-vita, dal momento che il cancro è tornato, ma d’altronde siamo tutti già da sempre condannati a morte –, il giudice Desiato, disposto a sacrificare qualsiasi principio etico, legale e professionale (che nel suo profilo non possono non coincidere) per salvare il figlio, a un certo punto sembrerebbe poter addossarsi la colpa dell’incidente che ha provocato la morte del figlio del boss Jimmy Baxter. Se a metà serie infatti, Desiato, con la pistola puntata alla testa, si fosse addossato la colpa del figlio, un finale possibile sarebbe stata l’esecuzione di Desiato e la “liberazione” del figlio. Certo, la verità sarebbe potuta uscire fuori ma le indagini e le ricerche probabilmente si sarebbe fermate lì; invece Desiato vuole continuare a proteggere la vita del figlio, ma allo stesso tempo non rinunciare alla propria vita.

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Ed è forse questa la colpa metafisica che viene punita dal fato nel finale repentino: un proiettile sparato per un altro regolamento di conti che finisce per uccidere quel figlio così disperatamente protetto e tutelato. E d’altronde, la colpa metafisica è anche quella di un rappresentante della giustizia che sacrifica la giustizia stessa per la vita del figlio: il bene comune scambiato per la sopravvivenza di un proprio affetto. L’amore paterno si rivela così da un lato ipocrita, dall’altro egoista: nulla può essere più importante della vita di mio figlio!

E proprio così, tragicamente, si perde la vita del figlio rimanendo in vita: questa la colpa, senza alcuna redenzione. Anzi, la vita di un altro figlio viene riscattata e recuperata: la vita di un assassino, l’altro figlio di Baxter che, piuttosto di finire sulla sedia elettrica, per merito delle azioni di Desiato volte a salvare il figlio in realtà salvano lui, deviando anche la traiettoria del proiettile nel finale esasperato e crudele. L’urlo finale di Cranston è un urlo sull’inconciliabilità di idea e realtà, un urlo che fora l’immaginario perché ci riproietta tragicamente nell’insensatezza dei fatti del mondo. O forse, l’esatto opposto, la dimensione complementare: in Your Honor non siamo nell’assoluta insensatezza della realtà concreta e materiale, ma in un universo governato da forze superiori e divine, la trascendenza è presente e interviene nelle azioni degli uomini (esattamente come in Raised by Wolves). Gli dei intervengono, ma per punire questo padre che per non perdere il figlio è stato disposto a perdere tutto il resto, fuorché la propria vita: come nelle tragedie greche, il padre messo alla prova si ritrova solo la vita tra le mani, perché non ha più anima, non ha più autorità, ma soprattutto non ha più un figlio.

Your Honor
Paese USA
Autore Peter Moffat
Anno 2021
Distribuzione italiana Sky Atlantic
con Bryan Cranston, Hunter Doohan, Hope Davis, Sofia Black-D’Elia