Nuova serie di proiezioni per la retrospettiva Epifanie e Rivelazioni al Cinema Spazio Uno di Firenze.

La rassegna, dedicata all’eclettico regista Peter Mettler, ha avuto inizio domenica 14 con il lungometraggio Picture of Light (1994), sorprendente esperimento girato a 40 ° sotto zero nel Canada del Nord con l’intento di impressionare sulla pellicola i colori e le evoluzioni di un’’aurora boreale.

Nella giornata di ieri il regista ha presentato tre diverse opere realizzate nella prima metà degli anni Ottanta.

Lancalot Freely (1980) e Gregory (1981) risalgono al periodo in cui Mettler frequentava il Ryerson Polytechnical Institute, trascorrendovi spesso giorno e notte, mosso dall’entusiasmo e dalla possibilità di avere a disposizione strumenti e apparecchiature 24 ore al giorno.

E’ in questa occasione che il regista mette a punto i primi personali percorsi di visione, facendo degli esercizi di stile commissionati dall’Istituto dei veri e propri film, dilatati e vissuti, spesso, come ricorda, causa di scontri con i propri insegnanti perché troppo eccentrici o fuori tema.

E, in effetti, è proprio questo il problema con Peter Mettler quando si pretende di imbrigliarlo in canoni o definzioni: la sua incontenibile forza centrifuga, quella capacità singolare di glissare immancabilmente ogni sentiero precostituito, per aprirsene uno tutto suo, in qualche modo vergine e imbattuto. Non si tratta, attenzione, di un mero nuotare controcorrente, perché anche questo, in fin dei conti, sarebbe un metodo, una maniera. Si tratta piuttosto di un istinto naturale, una forza innata e spontanea che ne anima l’intera biografia.

Schizofrenico” per appartenenza, come egli stesso si definisce, tra le origini svizzere e la vita canadese, Mettler dimostra un talento particolare nel mandare a monte i piani che gli altri costruiscono per lui, siano i genitori o i professori o la stessa società, con i suoi schemi rigidi e piatti, le sue redini e le mappe già tracciate.

Nel grigiore di un sistema che si fa sempre più meccanismo invisibile, Mettler è come un bambino che rivendica l’esistenza in prima persona, l’esperienza diretta, libera da confini e normative incomprensibili, spesso dettate più dalla consuetudine che dal buon senso.

E’ in quest’ottica che si capisce la fascinazione esercitata da Lancalot Freely- alias Kevin Jamieson- compagno dell’adolescenza che trova nella droga e nello spaccio una sorta di alternativa o, quantomeno, un’apparenza di reazione all’ipocrisia arida e ottusa di una società che l’ha deluso. La rabbia come tramite ultimo e estremo per un’amarezza che rischia, altrimenti, di sfociare in depressione. Nelle maglie necessariamente imperfette di una rappresentazione ancora non definita, messa in scena e non messa a punto, si intuisce già lo slancio che porta Mettler a diventare tutt’uno con la macchina da presa, trasformandola nel proprio sguardo fisico, in una protesi analitica e potente eppure mossa da una curiosità prettamente umana.

Con Gregory, Mettler esplora invece il tema della dissociazione tra corpo e mente, colta a partire dal momento più intimo ed emblematico dell’aporia, quello del sonno notturno. Dalle inquietudini irriducibili di una ragazza si dipana un’ansietà sottile e indefinibile, che striscia e si insinua nella mente del suo compagno. Il corpo fisico e grossolano diventa trappola e prigione per un flusso di fantasie e velleità che lo colmano e lo trascendono.

Più maturo e compiuto, Estern Avenue (1985) affronta il racconto di un viaggio che abbraccia Svizzera, Germania e Portogallo e si riversa sullo schermo sottoforma di immagini eterogenee per tecnica e trattamento, montate sulla scia di un “sentire” che è insieme emotivo e percettivo. Qui più che mai emerge l’amore per l’estetica in senso stretto, come esperienza sensoriale del mondo, sensibilità diffusa e aperta all’intuizione. Poeta della fusione, cultore dell’ibrido e del poliforme, Mettler traduce l’incontro tra mondo e prospettiva in un mix di suoni e immagini aleatorio e complesso come la realtà.

Tutto sommato, se dovessimo individuare un tratto che sottende ad una produzione volutamente sempre nuova e – appunto – epifanica, lo troviamo probabilmente proprio in questa libertà, in questa convinta determinazione ad esperire il cinema fino in fondo, per sdoganarne con coraggio l’infinito potenziale.