Venerdì 5 Marzo, Giuliano Montaldo ha presentato il suo nuovo documentario L’oro di Cuba, per celebrare i cinquant’anni della rivoluzione cubana.


Ne esce fuori un ritratto lucido e appassionato della tormentata esperienza cubana, tentando di coniugare il sogno utopico di un sviluppo diverso ed alternativo al capitalismo globale dominante, con tutte le contraddizioni e i limiti che ogni processo rivoluzionario porta con sé, soprattutto in un forte isolamento (consequenziale all’embargo ormai cinquantennale) e al boicottaggio sistematico del tessuto socio-economico dell’isola da parte degli Stati Uniti d’America.

Prima della proiezione, organizzata dal circolo di Roma dell’associazione Italia Cuba, in collaborazione con la cineteca nazionale e l’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi, Montaldo ha introdotto l’essenza narrativa del film e la curiosità politico-culturale che l’ha indotto ad intraprendere la lavorazione di un documentario così complesso e difficilmente gestibile con le tradizionali categorie estetiche.

Partendo dal crudo realismo dell’esistenza quotidiana cubana, pienamente inserita nello scacchiere internazionale, passando dalla rivolta contro la dittatura di Fulgencio Battista e la corruzione mafiosa alla vittoria della rivoluzione, dall’incontro di Fidel con Che Guevara alla crisi dei missili del 1962, dalla visita di Papa Woijtila alla progressiva liberalizzazione del paese.

E’ un documento assolutamente prezioso, utile per tessere una piattaforma interpretativa su cui giudicare a pieno l’esperienza cubana senza idealismi né faziosità, come sottolinea l’addetta dell’associazione Italia Cuba che modera l’incontro.

I membri dell’associazione sono abituati a sentire notizie su cuba che sono dettate dall’ostilità e dal pregiudizio e dalla disinformazione. Quando si tocca l’argomento Cuba, le accuse sono sempre le stesse. La violazione dei diritti umani, la dittatura, la repressione dei dissidenti e il partito unico.

E non vengono mai fatti cenni su quello che Cuba ha subito e subisce. Quindi di fronte ad una informazione che si guarda bene dall’informare, accogliamo con grande interesse un documentario che invece ci informa e ci da della notizie, perché ci racconta il percorso storico di una Cuba che partendo da una situazione insostenibile di colonia degli Stati Uniti sotto la dittatura di Battista, uomo molto gradito da Washington, si ribella e intraprende una lotta che si conclude con il trionfo della rivoluzione. A questo punto, l’isola ribelle diventa per l’amministrazione americana il nemico numero uno. Ed inizia un periodo di pressioni, di tentativi di invasione, attraverso soprattutto un embargo che strangola la sua economia.

Senza conoscere il contesto storico, senza capire le aggressioni che Cuba ha subito, gli attacchi terroristici che hanno causato a Cuba più di tremila morti, è difficile capire le posizioni che Cuba alcune volte è stata costretta ad assumere per tutelare le sue conquiste, il suo diritto all’autodifesa, il suo diritto all’autodeterminazione. Quindi vogliamo ringraziare il regista Giuliano Montaldo, per avere scelto come soggetto del suo documentario Cuba, ed averci fornito attraverso l’analisi profonda e lucida, una visione di Cuba attuale, di un paese che assolutamente va considerato all’interno di un contesto che è quello dell’America Latina, è un paese che indubbiamente ha raggiunto dei livelli invidiabili nei campi della ricerca, della cultura, dello sport, dell’educazione, dell’assistenza sanitaria e della difesa dei fondamentali diritti umani. Quindi a mio avviso, questo paese, nonostante tutti gli errori commessi, è un paese che merita di essere rispettato e ammirato e non solamente attaccato e denigrato.

Omogeneo a questa necessaria “totalizzazione rappresentativa” di una rivoluzione complessa e per certi aspetti lontanissima dagli esperimenti occidentali, Montaldo aggiunge:

Il lavoro del regista è quello di aprire una finestra sulla discussione. E lo sempre cercato di fare nei miei film, con Giordano Bruno, Sacco e Vanzetti, Gli occhiali d’oro. Aprire una discussione. Non ci sono paletti. Io ho avuto la fortuna di andare a Cuba. Per due volte ero stato invitato per la scuola di cinema. La prima ero in Cina per girare Marco Polo e la seconda ero impegnato nel lavoro.

E quando mi è stato offerto di occuparmi di questa impresa, ho accettato con grande voglia di conoscenza, volendo raccontare i cinquant’anni della rivoluzione cubana, incontrando la gente e soprattutto con degli stupori anche miei, perché un paese che è passato attraverso momenti di grande sofferenza (cinquant’anni di embargo), di grandi dolori, attentati violentissimi, di momenti molto duri. Molti cubani sono andati via.

Chi vuol fare un film contro Cuba va a Miami e trova tutto il materiale che vuole. Ma io ero a Cuba. Abbiamo chiamato Il documentario L’oro di Cuba, per l’amore che i cubani che abitano a Cuba hanno per il loro paese. Loro amano Cuba. Ed è sulla base di questo amore che noi ci siamo mossi per preparare e girare il film.

Ma bisogna possedere e padroneggiare tutte le tessere del mosaico cubano per poterne giudicare – con cognizione di causa – l’essenza, come aggiunge poco dopo:

Nel film vedrete le tante difficoltà che i cubani hanno vissuto in questi cinquant’anni, avendo oltretutto a poca distanza l’albero della cuccagna; gli Stati Uniti. Poi, se uno conosce la realtà culturale e politica di altri paesi intorno a Cuba, la precarietà dei popoli limitrofi, ad esempio Haiti, si rende conto che quello che è accaduto dal punto di vista della cultura, dello sport ma soprattutto della ricerca e della medicina in quel paese, è certamente qualcosa che tocca e che non ha eguali almeno nei territori che per lavoro ho visitato li intorno e non solo. E debbo dire che certe cose toccano davvero il cuore. Il regista finisce li. Quando va in un territorio e fa degli incontri. Io poi non sono un documentarista. Mi sono reso conto che è un mestiere dove non c’è nessuna sceneggiatura scritta. Uno va e incontra delle persone che ti aprono delle finestre.

Potevi avere degli incontri più fortunati, più intriganti? Io ho incontrato queste e con queste ho parlato. Mi ha molto toccato incontrare un regista [Juan Carlos Tabio]che ha avuto anche dei problemi che racconta, col suo film [Fragole e cioccolato, 1994]. Però è uno che rimane a Cuba, pur avendo tante opportunità di andare in giro per il mondo. Il musicista vive e lavora a Cuba. L’atleta che ha sposato poi un italiano, vive a Cuba. I cubani amano Cuba e questo era il mio messaggio. E poi i problemi di quel paese sono noti a tutti. E sono noti anche dal fatto che sono il frutto di cinquant’anni di embargo e di violenze subite.

Mi hanno raccontato che hanno tentato di avvelenare Fidel con un sigaro e con uno shampoo. Non c’è l’hanno fatta. Purtroppo è ammalato. La storia lo assolverà? Lo chiedo anche a voi. Io credo proprio di si, perché comunque sia ha traghettato un paese in un momento difficilissimo. Non è più un casinò né come voleva la mafia né come rivorrebbero molti esuli cubani. Un ragazzo cubano mi ha detto che molti esuli, con la crisi mondiale, non hanno più il sogno di raggiungere la mecca al di là del mare. A Miami si vendono degli appartamenti che un tempo costavano tre milioni di dollari a trecentomila dollari. Ed era preoccupato del controesodo. Tutto può dunque accadere.

E precisa: “Certo è sempre molto difficile fare dei documentari. E in base alla mia esperienza registica, non sono capace di mettere punto e a capo. Sono finestre aperte alla discussione e anche alla contestazione.

Alla fine della proiezione, si è aperto un dibattito con la partecipazione del pubblico, moderato da Fabrizio Casari (direttore della rivista online altrenotizie.org). La discussione è entrata nel vivo quando uno spettatore, sottolineando la ricchezza narrativa e la puntualità espressiva dell’intero documentario, ha però fatto notare l’assoluta latitanza del “lato oscuro”, delle laceranti – e spesso difficilmente comprensibili nell’occidente liberal-democratico – contraddizioni in seno al paese.

Fabrizio Casari ha ribadito l’eccezionalità dell’intera esperienza rivoluzionaria cubana, condannando certamente l’orrore della pena di morte, asserendo altresì che a Cuba non è mai stata comminata per delitti minori e che il numero delle pene e degli anni di carcere sono nettamente inferiori rispetto a tutti i paesi europei e alla maggioranza di quelli occidentali (salvo per alcuni reati contro lo stato, in Francia).

Tuttavia – ammette Casari – al di là delle eccellenze cubane per quanto riguarda la sanità e l’istruzione pubblica, la centralità sportiva connessa alla poliedricità culturale (soprattutto in riferimento alla scuola di cinema e all’archivio filmico fondate da Cesare Zavattini), profonde contraddizioni segnano il paese e il collante ideologico della rivoluzione sembra non essere più in grado di gestire la complessità dinamica di un paese organicamente proiettato, in special modo dopo l’esaurimento propulsivo ed accentratore di una personalità forte ed istrionica come quella di Fidel Castro, verso l’acritico ed inevitabile livellamento agli standard economico-sociali occidentali, pur mantenendo (in forme per la verità cristallizzate) la propria identità e la propria esperienza di laboratorio sociale unico nel suo genere.

Casari inscrive come elemento fondamentale della costellazione politica cubana, l’aggressione sistematica (650 attentati e 3000 morti in cinquant’anni) degli Usa per rovesciare il governo rivoluzionario cubano e destituire Castro dal suo comando.

Inoltre, la cronica povertà di mezzi produttivi all’altezza della competizione mondiale, la pecunia di risorse naturali (oltre naturalmente alla canna da zucchero e al turismo), acuiscono le già pesanti condizioni di sopravvivenza del paese caraibico: “Io mi sono chiesto in tanti anni che mi occupo dell’America Latina e di Cuba in particolare, per quale motivo tanto accanimento nei confronti di Cuba. Fondamentalmente le risposte sono tre: in primo luogo perché il muro che c’è tra L’Avana e Miami lo hanno alzato gli americani, non lo hanno mai alzato i cubani. Io ero a Cuba per la visita del Papa e mi ricordo che dissi a Navarro Valls, che gli piaceva la frase “il mondo si apre a Cuba e Cuba si apre al mondo”, che però bisognava avvertire il Papa che Cuba era già aperta al mondo, ed era dunque necessario che il mondo si aprisse a Cuba. Inoltre, misurarsi con il più grande e potente paese del mondo e vincere un giorno è un’impresa, vincere dieci anni è un risultato straordinario, ma vincere cinquant’anni tutte le mattine che Dio manda in terra è una cosa intollerabile.

In secondo luogo perché Cuba rappresenta paradossalmente la schizofrenia delle menti occidentali, abituate sostanzialmente a fare sempre due pesi e due misure con la sua esperienza rivoluzionaria. E questo per il terzo motivo, e cioè che Cuba, al di là di tutto, non è semplicemente un esempio di resistenza, ma qualche cosa di più.  Cuba ci ricorda che abbiamo tutti gli stessi diritti ma che non siamo tutti uguali. Perché c’è la vittima e c’è il carnefice. Perché c’è il colpevole e l’innocente. Perché c’è il giusto e l’ingiusto. Perché c’è chi aggredisce e chi è aggredito. E quando la storia si ripete con lo stesso reframe da cinquant’anni e passano undici presidenti americani e venti direttori della CIA, che assumono le loro funzioni dichiarando che questa è la volta che si chiude con Cuba, e loro passano e Cuba rimane lì, diventa una sfida intollerabile. In primo luogo all’esercizio dell’egemonia assoluta.

Ma in secondo luogo, perché Cuba rappresenta la possibilità di una dimensione ideale. Gli ideali non vanno più di moda, perché la costruzione dell’organizzazione del consenso e la costruzione e l’organizzazione del mercato della circolazione delle idee funzionano su altri codici. Perché gli ideali hanno in sé germi pericolosi di cambiamento e di prospettiva, obbligano le persone a pensare, a sognare, a mettere la passione, a credere in quello che fanno, prendersi la voglia di avere mille sconfitte piuttosto che non tentare di perdere mai restando ferme.

Al di là dunque di ogni ipotesi “giustificazionista” e di ogni “moralismo interpretativo”, lo sforzo del documentario è tutto teso a storicizzare un’esperienza politica e sociale per certi aspetti unica e irripetibile, una stagione che ha visto scontrarsi due idee di sviluppo, due modelli antagonisti di civiltà, due proposte di umanità, come registra lo stesso Casari:

Cuba dimostra che non è vero che il capitalismo è l’unica e l’ultima pagina della storia possibile. Che ci possono essere altri modi, molto diversi da quello, per organizzare la struttura sociale, politica e giuridica di un sistema, per dare una centralità diversa alla popolazione. E quando parlate di Cuba ricordatevi sempre che in un paese dove da cinquantacinque anni non può entra un’aspirina, in Italia non avremmo resistito neanche cinquantacinque giorni.

Un paese dove non è possibile avere tutto ciò che noi buttiamo, è un paese che comunque sia destina il 14 ℅ del suo prodotto interno lordo alla formazione scientifica delle persone che vengono da fuori Cuba. Vi chiedo di andare a leggere l’ultima finanziaria del nostro paese, per scoprire quanto destiniamo non all’istruzione di chi viene da fuori, che anzi tiriamo fuori dalle classi, ma a noi italiani. Non arriviamo neanche al 30 ℅ di quella cifra. Io credo che appena ci togliamo la maschera ideologica possiamo fare un salto dall’altra parte dell’oceano ed andare a prendere un po’ di lezioni, non dico tutte assolutamente realizzabili in occidente, ma che ci aiutano a capire come un’isoletta a forma di coccodrillo da cinquantacinque anni non solo resiste ma vince.

Anche Montaldo si associa alla condanna radicale di ogni pena di morte e repressione politica sui dissidenti (basta il suo Sacco e Vanzetti a ricordarlo), ma è altrettanto importante che il riflesso giuridico di un paese in guerra perenne da cinquant’anni, non offuschi l’amore e il rispetto profondo che il popolo cubano ha nutrito e nutre tutt’ora per la sua rivoluzione e le decisive conquiste della sue istituzioni, nel passaggio delicatissimo (non privo di terribili radicalizzazioni e pericolosi deliri d’onnipotenza) dalla putrida corruzione “feudal-baronale” di Battista, alla costruzione di una vera democrazia orizzontale, partecipata da tutti i cittadini, dall’alfabetizzazione di massa alla ricerca farmaceutica ed universitaria all’avanguardia, dalla sanità pubblica gratuita alla gestione diretta dei lavoratori e dei contadini alla produzione e degli artisti all’identità nazionale.

Ed è con questo spirito pienamente politico, senza mai scendere a compromessi né abdicando alle mode culturali, che Giuliano Montaldo ha affrontato questa inusitata impresa, come svela a noi di Persinsala.

  • Perché ha deciso di girare questo documentario per i cinquant’anni della rivoluzione cubana, in un momento così fortemente apolitico?

Prima di tutto sono cinquant’anni di vita di un paese. Una storia controversa di grandi amori e passioni, di dolori e di sacrifici indicibili, di successi che andavano a mio avviso capiti. Io sono andato a Cuba, anche attratto da amici che c’erano stati come Ettore Scola e Cesare Zavattini che ha fondato la scuola di cinema.

Devo dire che guardando la realtà cubana, con tutte le contraddizioni che inevitabilmente un embargo durato cinquant’anni esprime,si vedono risultati straordinari raggiunti rispetto agli altri paesi dominati dalla corruzione e dal malessere, dalla dittatura, nel Centro America e non solo. Dunque Cuba rappresenta un modello insopportabile ai più, ed è proprio per questo che non poteva così facilmente essere tollerato. E hanno fatto di tutto per creare difficoltà. Il miracolo di aver resistito così tanto e così orgogliosamente da parte di chi è rimasto, è una cosa che mi ha intrigato e ho voluto cercare di capirla.

Naturalmente come sempre accade, un film serve ad aprire una finestra, creare un dibattito, come è accaduto stasera. Come accade in realtà tutte le volte che mi chiamano per una proiezione. Mi è capitato più volte per i miei film. Ma è precisamente quello che voglio. Cioè offrire una visione di una realtà da discutere. Io non ho mai avuto la presunzione di avere in mano la verità. Propongo semplicemente una lettura su quello che potrebbe essere la verità.

  • Dunque questo documento è un preciso monito ad aprire un dibattito costruttivo su una storia ancora poco conosciuta, ma sempre e comunque strumentalizzata.

Sicuramente è una stagione giudicata con poca attenzione. Certo, anch’io sono stato solo due settimane. Però ho cercato con il materiale girato, con le inchieste, con le letture, di partire da questa piattaforma per saperne di più, approfondire per poi poter essere consenziente o dissenziente da ciò che vedevo.

  • Forse è proprio questo cinema d’inchiesta che manca oggi nel panorama italiano?

Un film che funziona è quello che quando finisce la proiezione, la gente ha voglia di criticare, discutere, approfondire. Se questo accade, il film è fortunato. Se non accade, la gente se ne va a casa, magari si è anche divertita. Ma se non si crea una discussione partecipata, è un’occasione perduta.

  • Lei, che ha sempre girato film sulla diversità, da Sacco e Vanzetti a Giordano Bruno, da Marco Polo a Gli occhiali d’oro, ritiene che oggi Cuba possa ancora rappresentare un alternativa possibile oppure è un’utopia persa per sempre?

Cuba è un sogno meraviglioso. Ma credo che dati i cambiamenti radicali di questi ultimi decenni, da una parte la globalizzazione trionfante e dall’altra l’avidità e i crolli di imperi economici plurisecolari. Io che ho girato Marco Polo in Cina, non avrei mai immaginato di vedere una Cina come si vede adesso, tantomeno – per fare un esempio – un’India come la vediamo adesso. Dunque Cuba, il giorno in cui gli si dà una mano, ci andremo, come dice un signore intervistato nel documentario, pagando per passeggiare nelle strade, perché sono di una bellezza e una forza unica. Tutto verrà monetizzato; è inevitabile.

Certo, Cuba è stata lasciata per cinquant’anni senza risorse. Bisognerebbe aprire un motore di una delle loro affascinanti automobili per capire le incredibili acrobazie che i cubani hanno fatto per farle funzionare.