Nella giornata in cui il mondo della fisica nucleare festeggia la scoperta della quanto meno suggestiva etimologicamente “particella di Dio”, a Pescara si celebra un Dio del cinema, una di quelle stelle che costellano il cielo di Hollywood: Billy Wilder (1906-2002).

A dieci anni dalla scomparsa dell’emigrante più irriverente d’America scopriamo, attraverso due personaggi a lui molto vicini, alcuni segreti sull’europeo che, arrivato nel nuovo mondo per vincere la fame più che alla ricerca di fama, inventa e impone un genere, e diventerà il simbolo del sistema cinematografico statunitense del dopoguerra.
L’incontro si apre con un filmato del 1999, nel quale vediamo un non più giovane, ma lucidissimo Wilder, ricevere all’età di novantatre anni il Pegaso d’oro per la carriera e ringraziare con l’umiltà che solo i grandi hanno il presidente del Premio Flaiano, Edoardo Tiboni.
A consegnargli il premio nella sua casa di Los Angeles, fu proprio quella Deborah Young, presente in sala per rivivere col pubblico pescarese quel momento emozionante.

La Young, cittadina americana anche se da anni residente a Roma, è un nome conosciuto nel mondo del cinema. E’ di pochi mesi fa la notizia delle sue dimissioni, non senza polemiche, come direttore del festival di Taormina. Giornalista e critica cinematografica di Variety, è responsabile per le notizie sull’industria cinematografica per l’Italia e per altri paesi del Mediterraneo, redattore per l’Italia della rivista Cineaste di New York e, dal 2005, consulente per il Tribeca Film Festival di New York. A completare un curriculum di assoluto rispetto, il ruolo di direttore artistico di New Italian Cinema Events (N.I.C.E.), una vetrina per il nuovo cinema indipendente italiano a New York, San Francisco, Amsterdam e Mosca.
Oltre ad aver collaborato per il Festival cinematografico di Venezia, ha fatto parte della giuria di numerosi festival internazionali, “ambito” del quale segnaliamo il ruolo, dal 1999, di membro permanente del Premio Flaiano a Pescara, insieme a Mario Monicelli, recentemente scomparso, Suso Cecchi D’Amico e Giuliano Montaldo.

E proprio come membro della commissione del Premio Flaiano, Debora Young svela i retroscena di quella giornata che definisce “memorabile”. Nell’intervista, Wilder consegna subito una pillola di saggezza ai giovani che, spinti dalla passione, desiderano lavorare nell’industria cinematografica: le sue parole mostrano la concretezza di un mestiere, lasciandoci intuire come mai il maestro si stato sempre estraneo dal definirsi, seppur legittimamente, un genio, una star della settima arte. Tornando ai giovani, sembra il consiglio di un noto amministratore delegato anch’esso emigrato dall’Italia verso l’America, quello che viene da Wilder verso chi vorrebbe lavorare nel settore: “una buona dose di talento e altrettanta fortuna e una buona sceneggiatura, una storia da raccontare”. La ricetta, apparentemente semplice, nasconde un pregresso personale di valenza storica: “Se non ci fosse stato Hitler, se non fossi stato ebreo e se la storia sui libri fosse diversa, sarei rimasto senza dubbio in Europa, nel mio paese “.

Dalle sue parole si percepisce un senso di nostalgia verso quel passato, che lo ha costretto a lasciare la Polonia per raggiungere prima Parigi e poi Los Angeles in cerca di lavoro. “La mia migrazione mi ha permesso di lavorare con i miei attori preferiti – continua nell’intervista Wilder – Jack Lemmon, diventato mio “compare”, amico di sempre e compagno nel set “. Il loro sodalizio è infatti paragonabile a quello avvenuto tra Marcello Mastroianni e Federico Fellini, negli stessi anni in Italia.

“La mia preferita?”, ci svela , “senza dubbio Audrey Hepburn, con la quale ho avuto la fortuna di lavorare ben due volte, in Arianna (1957), affiancata da Gary Cooper , e in Sabrina (1954), in cui è contesa, come una principessa in chiave di commedia deliziosa e sofisticata, da William Holden e Humphrey Bogart”. Ardua scelta per l’aggraziata Cenerentola.

Da Audrey Hepburn, il regista passa a raccontarci alcuni aneddoti dell’altra icona femminile dell’epoca, simbolo della sua filmografia, con la quale ha lavorato in numerosissime produzioni: Marylin Monroe.

Samuel Wilder e Norma Jean Becker con il loro sodalizio hanno in pochi anni rivoluzionato il cinema americano, ancorato alle peculiarità degli anni venti-trenta , trasformandolo in commedia irriverente e sofisticata. Un rapporto che neanche la prematura e misteriosa scomparsa di lei ha diviso. Riposano infatti insieme a Westwood, piccolo cimitero di Los Angeles, nascosto tra grattacieli. Si entra in una piccola e nascosta oasi di pace, meta di pellegrinaggio di chi vuole lasciare il proprio “bacio”, impresso nella lastra dell’icona scomparsa nel 1962, o togliere il capello in segno di rispetto verso questo maestro del cinema.

Debora Young riporta la lucidità con la quale Wilder le raccontò la scena “del treno”, girata ben quaranta volte da Marylin in A qualcuno piace caldo (1959). Quaranta ciack dopo i quali il regista chiedeva se lei avesse bisogno di riposare, e la Monroe rispondeva che non vedeva il motivo per riptere la scena, visto che non le sembrava ci fossero errori nella sua breve battuta. Solamente dopo aver rivisto il film montato, il regista austriaco si rese conto della perfezione della scena, dovuta (anche) alle adorabili imperfezioni della protagonista.

Il Flaiano Film Festival propone agli amanti di Wilder la proiezione dei suoi film in lingua originale e sottotitolati, ospitando nella serata a lui dedicata un altro” grande” capace, con la sua intelligenza, unita alla ineguagliabile competenza, di stimolare il pubblico a riflettere sul regista da un’altra prospettiva, forse meno nota, ma sicuramente fondamentale nella comprensione dell’autore e delle caratteristiche del sistema cinematografico statunitense, allora radicalmente in “fieri” e oggi ancora in debito nei confronti degli anni in cui Wilder si impose sul mercato.

Enrico Magrelli infatti, parla del ruolo di sceneggiatore di Wilder, raccontandoci che, prima di intraprendere la fortunata carriera nel cinema, aveva iniziato a lavorare come giornalista in Austria e Germania. Come era costume all’epoca, fece diverse interviste a grandi intellettuali e tra queste, una leggenda narra del suo incontro con Freud che, però, dopo avergli aperto, lo mise alla porta, scatenando forse in lui la passione per le inchieste sulle tematiche legate agli equivoci, le maschere e l’ambiguità dei ruoli ricoperti, come quella sui gigolò (accompagnatori poco ben visti dalla morale dell’epoca).

Magrelli ricorda anche il suo ruolo di scrittore di cronaca nera, che porterà avanti in molti film, tra cui il celeberrimo Viale del tramonto (1950), con l’altera Gloria Swanson (1899-1983).

Il suo passato da scrittore ne spiega dunque la vocazione per il racconto – inteso come una storia da raccontare puntigliosamente – in ogni suo progetto cinematografico. Talmente importante la scrittura che Wilder, appena arrivato in America, quando ancora non conosceva la lingua, fingeva di scrivere in inglese e si faceva tradurre i testi, rivendicandone la paternità. Voleva superare i propri limiti Billy Wilder partendo proprio dalle “badwords”, che come spesso accade, sono le prime parole pronunciate da un neonato straniero, fino arrivare ad affermare che “per essere un buon regista , bisogna saper leggere, più che scrivere”.

Il contrasto è un altro tema di cui Magrelli parla ricordando i capolavori di Wilder (“è la regola fondamentale del genere della commedia, che fa scattare nel pubblico la risata”), una sensibilità “sempre squilibrata” verso il contrasto e verso personaggi, rapporti, età, sesso, che ritroviamo in ogni suo film. Il giornalista ci racconta che il regista in un negozio di musica aveva conosciuto, e se ne era invaghito, una giovane commessa , della quale gli amici sveleranno la doppia identità notturna (informazione che gliela rese ancora più affascinante). All’epoca Wilder amava giocare e spingersi al limite della censura americana, dettata da una morale conservatrice e puritana. Ciononostante, il sistema cinematografico gli consentiva di introdurre nella sceneggiatura personaggi ambigui e caricaturali della società contemporanea, facendo sorridere il pubblico senza volgarità.

Ancora oggi il suo stile è riconoscibile in molti registi che inevitabilmente ne hanno subito le conseguenze. Woody Allen, classe 1935, è spesso messo a confronto con Billy Wilder. Tredici nomination agli oscar per il newyorkese, dodici per il ragazzo di Sucha Beskidzka. E’ immediato intuire il legame tra i due, inutile e noioso scegliere il migliore. L’unica differenza e ingiustizia sta nel fatto che gli americani adorano Woody Allen, ma hanno amato Billy Wilder solo per pochi anni, quelli dello splendore, impedendogli poi di lavorare come avrebbe voluto e lasciandolo da parte.

Prendere in giro i cardini dell’istituzione americana, non scadere nella volgarità, giocare con le ambiguità, i drammi e le paure e sorridere di tutto ciò, nonostante la serietà degli argomenti trattati. Billy Wilder inventa un genere che cambia il modo di fare cinema. Il suo trasferimento forzato e soprattutto sofferto è stato forse la sua fortuna, ma sicuramente è stata la fortuna del cinema statunitense, che – all’epoca come oggi – si avvantaggiava dei benefici dell’ondata migratoria (causata dal conflitto bellico) dei talenti europei.

In arte esistono due categorie di cineasti che arrivavano nel nuovo mondo provenienti dal vecchio continente: gli artisti, che nonostante il passaporto da immigrati e delle volte anche clandestini, pretendevano il trattamento da star, e tutti gli altri, quelli che semplicemente erano alla ricerca di un lavoro. Billy Wilder, dove si collocava?

Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso. Avrebbe risposto Ennio Flaiano

Flaiano Film Festival 2012
Teatro Massimo – Teatro d’Annunzio
Pescara 28 giugno – 8 luglio 2012