Il Festival del Cinema di Locarno è giunto alla sua 69° edizione. In una giornata di festival, vi diamo un assaggio delle curiosità, le incongruenze e le sorprese che la città svizzera offre quando diventa maculata.

A fine proiezione esco per una sigaretta e continuo a tartassare tutti: le vecchie signore che possono indossare camice leopardate senza sembrare ridicole, gli svizzeri tedeschi con cui è difficile comunicare… Possibile che nessuno sappia perché il leopardo è il simbolo del Festival? La ragazza che controlla i biglietti all’ingresso in sala mi prova a dire che il leopardo è un animale raro, protetto e in via d’estinzione, così come lo è il cinema di qualità. Bel tentativo, ma non sono convinto. Do una sbirciata su Internet prima dell’inizio della proiezione successiva, nella speranza di darmi pace, ma neanche Wikipedia sembra essermi d’aiuto.
Inizia il terzo film della giornata. Dalle prime inquadrature sembra promettere bene… Dopo meno di dieci minuti mi trovo a guardare in giro per la sala nella speranza di trovare un angolo da cui poter uscire.
La pellicola si rivela un classico film da festival: quelli con pause lunghe, inquadrature infinite delle scarpe di un passante e conversazioni alienate, senza che la storia ne abbia alcuna necessità. Tutt’a un tratto la mia intera fila si alza per uscire, liberazione! Mi accodo e fuggo verso Largo Zorzi, dove si trova l’area stampa, fermandomi allo stand della Radio Televisione Svizzera, nel tentativo di svelare l’arcano del leopardo. La RTS sta facendo dei provini subito prima della Piazza Grande, dove si trova uno degli schermi più grandi d’Europa, ma l’unica cosa che riescono a dirmi è il punto in cui si trova l’ufficio informazioni, dove posso provare a domandare, se ci tengo. E io ci tengo, assolutamente! Un’intera città si ricopre di macchie e nessuno sa il perché? Mi precipito all’ufficio informazioni, dove intrattengo una conversazione con due giovani ragazzi dello staff che finalmente mi danno la soluzione: Locarno ha un animale simbolo, che è un leone, ma da più di sessant’anni c’è una diatriba sull’entità dell’animale; non è infatti chiaro se si tratti effettivamente di un leone o di un leopardo. Da questa ambiguità di simboli Locarno trae la sua estetica, trasformata in un vero e proprio brand.
Ora, dopo una breve ricerca viene fuori che è dal 1968 che Locarno consegna il Pardo d’Oro, mentre prima il premio aveva altri nomi, per cui la soluzione è molto semplice: il Leone d’Oro già esisteva a Venezia almeno dagli anni Cinquanta, per cui giocoforza Locarno ha dovuto scegliere il leopardo!

Ringrazio i due giovani, e finalmente posso dirigermi in Piazza Grande a cuor leggero. L’organizzazione svizzera, puntualissima, blocca tutti gli spettatori all’ingresso, contandoli uno per uno prima di accedere alla Piazza. Lo spazio è all’aperto, e consente l’accesso a ottomila persone. Giunti a quel numero, gli svizzeri fermano gli ingressi, senza eccezioni. Una volta varcata la soglia, l’atmosfera che si respira nella piazza ha dell’incredibile. Uno schermo gigante sovrasta gli spettatori, chiudendo il cerchio di edifici composto dal municipio e da alcune delle più importanti banche del paese, e quando cala il sole, inizia la magia! Dei proiettori illuminano gli edifici con immagini tratte da vecchie pellicole o fotografie di volti leopardati, mentre allo scoccare delle 21.30 comincia lo spettacolo serale. In un soffio assisto alla premiazione di Howard Shore con il Vision Award; al film di Ken Loach che ha commosso Cannes fino a fargli guadagnare la Palma d’oro e a un folle film coreano in cui il protagonista rimane bloccato in un tunnel per più di un mese. La cornice della piazza, mentre sopra di noi piovono le stelle cadenti, è qualcosa di impagabile, e le due di notte arrivano prima che ci si accorga che è finito l’incanto. Il Leopardo di Locarno ruggisce, e me ne sono accorto bene, ma la sua calma, la noncuranza che mostra mentre passa attraverso lo schermo è una buona rappresentazione di quello che è il Festival: una ricchezza per il cinema europeo che rimane in quieta attesa, ingabbiato tra le montagne della Svizzera, per tornare a farsi sentire e a mordere, quando per dieci giorni corre libero per le vie della città. E vederlo correre è una delle più belle sorprese che un appassionato di cinema possa avere.