Quattro proiezioni in questa quinta giornata di Festival.

Apriamo col Il paese delle spose infelici di Pippo Mezzapesa. Sebbene questo film si snodi principalmente attraverso una serie di problemi adolescenziali (ormai largamente stereotipati, come il rapporto con la società, con la legge, con l’altro sesso, e con il sesso in generale, e con comportamenti come rispetto, onore e lealtà), cosa che lo appesantisce e lo banalizza un po’ in certi passaggi, resta il fatto che, oltre a essere bene interpretato da un cast in massima parte giovanissimo e selezionato con cura, il film è soprattutto un ottimo esempio di ricerca formale. Il regista alterna una selezione di inquadrature magari non banali, ma sicuramente collaudate, ad altre inquadrature molto interessanti, inusitate, costruite con affascinanti e particolari movimenti di macchina (consigliamo di osservare attentamente l’inizio del film, a proposito) o con l’ausilio del silenzioso, desolato e vasto paesaggio pugliese – luogo dove i corpi perdono importanza assieme alla narrazione e l’unica cosa che rimane è un senso di vuoto, solitudine e attesa. Forse per una volta, in questi attimi de Il paese delle spose infelici, si può intravedere il miglior film sull’adolescenza degli ultimi anni (genere, di solito, molto pericoloso e maltrattato, nonché affidato ad autori che hanno abbandonato l’adolescenza da molto tempo).

The eye of the storm è invece una produzione australiana affidata alla regia di Fred Schepisi, tratta da un romanzo di Patrick White (Nobel australiano per la letteratura nel 1972): se nel film di Mezzapesa a dominare era la gioventù, questo è invece un film sulla vecchiaia, sugli ultimi giorni di una fredda e forte ricca donna (magistralmente interpretata da Charlotte Rampling) e sui suoi due figli (Geoffrey Rush e Judy Davis), un po’ egoisti, un po’ rancorosi, un po’ opportunisti, che hanno deciso di vivere lontano da casa la loro vita e che vi ritornano solo per stare al capezzale della genitrice (e per puntare all’eredità). Tutto il cast è in stato di grazia e tutto il film è costellato, nel suo rigore formale privo di sbavature (ma anche privo di qualche particolare ambizione espressiva), di piccoli frammenti di cose che marciscono, che vengono rovinate dal tempo, che ammuffiscono e che si popolano di esseri vermiformi. E così, al freddo e integro governo dei sentimenti voluto dai personaggi (e splendidamente reso dagli attori), l’unica chiave che ci ricorda che dramma veramente si stia consumando sullo schermo, sono questi piccoli rimandi alla macerazione: dei corpi, dei rapporti, dei sentimenti. The eye of the storm è un film potente, fortemente legato alla sua matrice romanzesca: forse poteva essere un film più interessante da un punto di vista registico, ma spostare l’ago della bilancia dalla regia alla recitazione, soprattutto in un’opera come questa che è incentrata sulle sfumature dei protagonisti che la popolano, non può essere sicuramente ritenuto un demerito.
Weekend di Andrew Haigh è un piccolo interessante film su un fine settimana di due ragazzi omosessuali che si confrontano, condividono paure e sentimenti, si amano, si criticano e, alla fine, si salutano. Ci rendiamo conto che descrivere così un’opera equivale a renderla in qualche maniera impalpabile nella mente di chi legge, ma non è affatto così: sebbene il film di Haigh non appaia come un capolavoro, se accostato ai vari film incentrati sul dialogo (a prescindere dal suo lato queer), è pur vero che contiene tematiche interessanti e stimolanti, ma senza diventare per questo pesante e pedante. Retto quindi da un buon equilibrio formale e alleggerito ogni tanto da battute di spirito, Weekend scorre via facilmente e, tra qualche risata e qualche tenerezza, lascia una buona impressione, fa applaudire il pubblico in sala e fa dunque ben sperare nei confronti della diffusione, sempre auspicabile, del cinema altro nel nostro paese (ma ci rendiamo conto che è e rischia di restare una speranza).
Per chiudere, una citazione per Magic valley di Jaffe Zinn. Abbandoniamo un attimo la nostra (auspicata) imparzialità e cronaca. Non parleremo in maniera solita di quest’opera, con trama e simili, ma invece diciamo che sarebbe fantastico se questo titolo vincesse il Festival. Un film dove tutto il cast collabora alla creazione di un atmosfera dove la tensione è costantemente e sottilmente presente, nonostante tutto si sappia di quello che è successo e i dubbi sulle vicende narrate siano, a conti fatti, solo superficiali. Questo è racconto di una mezza giornata dove regnano, rese con immagini stupende, il silenzio e la morte (soprattutto nella sua accezione di “fine”, “pace” e “tranquillità”) e dove, nonostante tutta questa apparente calma – che elabora l’inatteso con gli stessi codici con cui elabora la routine – si sa, meglio, si sente che c’è qualcosa nell’aria. Magic valley è rivolto al passato (è centrato su tutto ciò che è successo), ma si svolge e si declina tutto al presente, privo (finalmente!) di flashback. Tra inquadrature di paesaggi impressionanti (e ripresi con gusto e con una fotografia di qualità pregiatissima, piena di riguardi nei confronti della luce solare – siamo dalle parti di Una storia vera di David Lynch), interpreti azzeccati e una struttura narrativa completa e splendidamente definita, Jaffe Zinn confeziona un film di qualità assoluta e difficilmente discutibile. Non sappiamo se vincerà, ma sicuramente sappiamo che un film così si merita tutte le nostre attenzioni, stima e, speriamo, anche quelle di un qualche distributore.