Terza giornata del Festival Internazionale del Film di Romaabbastanza piena, meno entusiasmante rispetto a come, invece, sarebbe potuta essere.

A posteriori, il momento migliore é stato quello della prima proiezione, Dragonslayer, per la regia di Tristan Patterson (prodotto della Killer Films, giá nota per i lavori di Todd Haynes, ma non solo), un documentario sulla vita di Josh “Skreech” Sandoval, giovane skateboarder crack dipendente dalla vita sregolata, che non riesce a fare della passione per la tavola e per gli skatepark un mezzo di rendita per vivere, subendo, pur poco piú che ventenne, l’aggressivitá delle nuove generazioni e perdendo cosí sponsors e reputazione. Con spunti d’osservazione molto acuti non solo sul degrado del protagonista, ma di un’America tutta colpita violentemente dalla crisi economica e dalla recessione, il film di Patterson abbina stilisticamente delle riprese selvagge, a bassa fedeltá, un po’ come nei videoblog, a inquadrature ben definite e con un interessante e affascinante gusto per la composizione dell’immagine. Notevole risultato finale quello di Dragonslayer, speriamo che, in qualche modo, ottenga una forma – seppur minima – di distribuzione in Italia.
Turn me on, Goddammit! é, invece, il titolo del film di Jannicke Jacobsen, opera centrata sui turbamenti (e i problemi derivanti da questi) di una giovane ragazza di un paesino norvegese, Alma. Premiato al Tribeca Film Festival col premio del pubblico, il film riesce senz’altro a far girare la ruota dell’erotismo adolescenziale senza offrire un quadro totale sgarbato o superficiale: infatti, il film di Jacobsen ha dei toni molto interessanti, sia nel tratteggiare certi contesti sociali (la piccola comunitá nordica), sia in qualche trovata interessante e di sceneggiatura e di regia (film molto pulito, senza grosse sbavature o azzardi, molto piacevole alla vista anche grazie a una fotografia gradevole nonostante la grande luce che la contraddistingue). Quello che un po’ ci lascia perplessi a riguardo di Turn me on, Goddammit! é la sensazione che, forse, i personaggi potevano essere un po’ ferini e un po’ piú profondamente trattati, ma probabilmente, considerato il contesto adolescenziale in cui il film si muove, la soluzione intrapresa rimane quella piú corretta per il film.
Nel pieno del pomeriggio é infine arrivato la tanto attesa e agognata masterclass di Michael Mann. Un’ora di attesa fuori da una sala Petrassi stracolma tra accreditati e biglietti paganti. A spezzoni tratti dai suoi film si alternavano le domande poste dai moderatori dell’incontro. L’evento, iniziato in netto ritardo rispetto al programma, ci ha abbastanza deluso: un po’ per il contributo dato dal regista americano, il quale, peró, ha chiaramente cercato di rimanere sulle linee suggeritegli dalle domande che male approfittavano della fortuna di poter approfondire questioni tutt’altro che superficiali direttamente con uno dei piú grandi cineasti viventi. A lasciare perplessi sono stati soprattutto proprio gli atteggiamenti volutamente schivi e molto “popular” tenuti dai mediatori dell’incontro, dei quali, a mero titolo esemplificativo, citiamo la prima domanda posta a Mann, riguardo la ormai tediosa interrogazione su quali siano le prospettive aperte dal cinema digitale e dalla “rivoluzione” da esso attuata. A ben vedere sono quasi 15 anni che si parla di questa rivoluzione in fieri, e sarebbe anche il caso di verificare se tutto stia ancora cambiando o se una qualche linea d’ombra sia stata varcata e che cosa sia stato, a riguardo, definito.
A concludere una giornata abbastanza dal sapore della mancata occasione é arrivata la proiezione di Like crazy di Drake Doremus, film romantico sul primo amore e sul suo propagarsi attraverso il tempo e il naturale defluire della vita, la quale, nonostante faccia di tutto per ostacolare e allontanare due giovani amanti, non riesce mai totalmente a separarli. Sebbene il film, ben recitato e degnamente girato con rigore e asciuttezza, non male impressioni, resta la sensazione di assistere alle avventure di due giovani incoscienti: a una piú attenta riflessione si capisce che il film é proprio incentrato sull’apparente immaturitá dei due protagonisti, che crescono in tutti gli aspetti della loro vita tranne che nel loro rapporto interpersonale e, se questo a fine visione fa assomigliare l’amore tra i due a una sorta di tumore non estirpabile, in realtá é il segno di qualcosa di immutabile che si conserva malgrado tutto. Ma questo messaggio sull’importanza e sull’inesauribilitá dell’amore é, alla fine, veicolato in una maniera tale che, se ci si accontentasse di una visione superficiale di Like crazy (come spesso accade, dopotutto, ai film cosiddetti “romantici”), si rischierebbe di concepire l’amore stesso come una sorta di gabbia egoista e fagocitante ogni altra realtá – due visioni non propriamente conciliabili.