Imbricazioni e slittamenti

Dopo cinque anni di attesa, ecco Failures, l’ultima e convincente fatica di Giudah!

C’è tanta carne al fuoco in Failures, il nuovo lavoro di Giudah!, nome ad alto rischio di tradimento dietro il quale si cela il musicista trevigiano Federico Rosada. Concepito inizialmente come un EP, frutto della collaborazione con Maurizio DeSalvo e Alessio Ruggeri, Failures ha raggiunto al fine la sua forma conclusiva in un album di sette tracce più una ghost track (alle quali vanno aggiunte le due presenti solamente nella versione MC edita da È un brutto posto dove vivere). Mondi sonori che spesso hanno mantenuto tra di essi le distanze, come il rock, l’EDM e l’ambient, si incrociano in questi brani con un’insospettabile fluidità, lavorando le temporalità musicali attraverso un procedimento di alleggerimento che giova ad un lavoro che fa della fuga dalle definizioni, il suo punto d’onore.

Con Failures Giudah! ci regala una piccola opera matura e affascinante, che riesce a dimostrarsi particolarmente equilibrata nonostante l’eterogeneità dei brani. L’album si apre con la convincente Wendy Arnold, joussif vortice le cui volute strutturano la composizione attraverso una costruzione che fa del movimento la propria armatura. Colors Empire appare come il personale tributo alla stagione della cold wave, dove il minimalismo insistente e dalle tonalità oscure incarna l’omaggio di Giudah! a quella stagione di raffreddamento e di precisione cerusica nell’incisione di una nuova modalità di articolare il disagio della contemporaneità. Il tutto tagliato con la presa sul reale dei Kasabian. Cio che colpisce assai rapidamente, è l’insofferenza che Giudah! nutre per la trasparenza e la definizione. Il progetto trevigiano si distingue perché si autorizza continue svolte, dipingendo un lavoro costituito di infiniti slittamenti. Ciò avviene perfettamente anche in questo brano: quando crediamo di aver colto il genere di riferimento, eccoci di fronte, nel finale, a ritmi techno e una vocalità affascinante e perturbante che ricorda da vicino un certo Richard Ashcroft.

Con Ballerina ci ritroviamo improvvisamente in un ambiente lisergico, vaporoso, indistinto, dove procediamo a tentoni, aggrappati solamente alla voce di Federico Rosada, linea direttrice all’interno di campi ambient punteggiati da brevi interventi rumoristici che, in questo caso, assomigliano maggiormente a intromissioni frammentarie infantili, giochi sonori, divertissements che permettono l’incidenza del farsi proprio del godimento. Con You can’t stop me now ci troviamo avvolti in un’atmosfera violacea da clubbing, e il brano sembra riuscire nell’intento di rievocare il versante spurio, più acido della brit pop, proprio quando quest’ultima si stava definitivamente esaurendo. In quel frangente storico, come avviene in ogni coda decadentistica, si aprirono le possibilità per sfondare le pareti definenti chiaramente quel tipo di forma canzone, sciogliendoli in una soluzione pericolosa ed ammaliante. E proprio come avvenne all’epoca, anche qui la musica s’espace accogliendo ritmi dance, colori house, dove gli UNKLE si fondono in un acquerello ambient.

Nella successiva Côte de nuit vediamo apparire per la prima volta il pianoforte. Quest’ultimo delinea un semplice solco che impone la sua delicata direttività intorno alla quale si sviluppa e attorciglia il brano, con una voce che si cerca, si dibatte, si intestardisce, fino a liberarsi in un canto distorto à la Alec Empire. Doggerel, titolo che evoca la “poesia zoppicante” inglese, liberata dal formalismo e dall’intento serio, rappresenta una splendida perla non perfettamente polita che, fortunatamente, mantiene qualcosa di una ruvidezza che giunge direttamente dagli anni Novanta. In nemmeno due minuti troviamo un concentrato di rock, punk, sogni e insofferenze giovanili, dove i Nada Surf, i Pavement e gli Slowdive condividono il palco senza inciampare in alcuna bagarre. Swallow, forse memore dei sentimenti shoegaze appena evocati, fa del wall of sound il proprio squisito mezzo di espressione: suoni saturi, corposi, pieni che inondano un ordito elegante, certosino. L’apertura della chitarra elettrica permette alla jouissance l’estrinsecazione più completa e libera. E tutto ciò avviene mentre cerchiamo disperatamente questo titolo nella tracklist di Pisces Iscariot.

La mezz’ora di musica sembra finire qui ma c’è ancora tempo per una breve ed intensa ghost track. Ventre del mare è l’ideale chiusa di un’opera che convince. Il pianoforte accarezza una lingua romantica, decadente, raffinata, mentre una sezione elettronica di archi, acuisce il gradiente ambient. Il primissimo Einaudi, sorvegliato da vicino dal più pacificato Trent Reznor che si possa immaginare, permettono a Giudah! di congedarsi nel migliore dei modi.

La versione su cassetta ci regala due brani aggiuntivi. Fato è una rapidissima cavalcata che gioca con una lingua ferrosa e ripetitiva che giunge direttamente dagli anni Ottanta, mentre la versione remixata di Doggerel di Zeno Marchetti asciuga la lingua rock dell’originale trasformandola in una respirazione più meccanica, raffreddando l’immediatezza dell’espressione e rendendola maggiormente più celebrale.

Failures
di Giudah!
Etichetta: Alienated records, Consorzio etichette indipendenti, È un brutto posto dove vivere
Uscita: 21 gennaio 2022