È dall’osservazione e dalla consapevolezza del quotidiano che nasce Clacson, cortometraggio pluripremiato scritto e diretto da Tak Kuroha, di quali siano le piccole noie di tutti i giorni e quali le nostre ambizioni.

Grazie a questo studio, sicuramente ben nascosto dalla forma asciutta dell’opera, il film di Kuroha riesce a uscire da un semplice livello di apprezzamento della narrazione, aprendo le porte, sempre difficili da avvicinare in un cortometraggio, dell’immedesimazione spettatoriale. Infatti è possibile, senza grossa fatica, riuscire a riconoscersi – in maniera esclusiva, non contemporaneamente – in entrambe le figure umane e questo succede perché sono costruite e ben definite su più piani, caratterizzati non tanto da un lavoro di descrizione classica, quanto dal contesto che sta loro intorno. Più semplicemente, non sono due personaggi veri e propri, ma un insieme di azioni in due differenti contesti, che, per un motivo o per l’altro, conosciamo più che bene. Quindi l’immedesimazione non risiede tanto nella caratterizzazione delle figure umane, quanto in quella spaziale e situazionale. Questo genere di lavoro, se ben eseguito (ed è naturalmente il caso di Clacson), permette di aprire la strada alla proiezione degli spettatori nel cortometraggio, opera che, ripetiamo, non è facile per opere di questa forma che, dopotutto, solitamente vengono a essere qualcosa di più simile a una barzelletta o un aforisma,in cui tutto si basa su un tempo breve e su un qualche colpo a effetto, piuttosto che nella costruzione di un rapporto empatico con la sua audience. Però Clacson ce l’ha fatta, lavorando intensamente e con competenza sul piano del contesto, innalzandosi, nella sua apparente semplicità, una spanna sotto molti altri prodotti similari per forma e contenuti.

Questo lavoro sul contesto si può riassumere in due aspetti fondamentali: nel ruolo della luce e nel ruolo delle barriere.

La luce è rappresentata in maniera dicotomica, divisa tra una situazione ben illuminata da una fonte quasi zenitale e un’altra dove, invece, a farla da padrona è la penombra. Rispettivamente, queste due possibilità riflettono due attitudini umane tipiche, ossia la richiesta di attenzione, forse d’aiuto (come se la luce fosse quella di un occhio di bue da palcoscenico) e, dall’altra parte, la volontà di estraniarsi, allontanarsi, ritirarsi in una piccola realtà vagamente egoistica. Dunque i due personaggi assumono queste caratteristiche appena descritte non già per loro comportamenti quanto per la semplice gestione e “patetizzazione” (emozionalizzazione) della luce nel contesto in cui si muovono.

Tenendo fermo che i contesti mostrati nel corto sono “comuni” e consapevoli delle diverse fenomenologie date dalla luce alle realtà rappresentate, ecco che la raffigurazione delle barriere diventa il tocco necessario perché il corto si lanci oltre il semplice apprezzamento: le barriere sono il vero punto di forza di Clacson. Senza troppo dire della trama (che in un corto di poco più di cinque minuti sarebbe delittuoso trattare), nel contesto che abbiamo detto “illuminato”, quello della richiesta di attenzione, le barriere (che poi sarebbero “gli altri”) sono presenti ma assenti (le macchine vuote parcheggiate a ingabbiare quella della protagonista), mentre nel contesto della penombra le barriere sono assenti, ma quanto mai presenti (il suono del clacson).

È su questa – tutto sommato semplice – serie di chiasmi nei due contesti, perfettamente complementari l’uno con l’altro, che Clacson trova la sua forza: traducendo la difficile relazione quotidiana tra i nostri desideri e le vite degli altri in un insieme di segni audiovisivi, i quali sono mostrati sotto forma di “ostacoli” quasi impossibili da abbattere. Tutto questo portato narrativo/sociale è completamente affidato alla messa in scena degli spazi attraverso immagini e rumori (oltretutto la trattazione del suono è tecnicamente eccellente nel lavoro di Kuroha), mentre i personaggi si limitano a essere semplici descrizione di comportamenti. Proprio negando il mezzo principale di immedesimazione spettatoriale, ossia la caratterizzazione, Clacson ottiene la massima attenzione e identificazione dell’audience, nobilitando la sottovalutata forma del cortometraggio e, soprattutto, meritandosi ogni visione per l’interessante dualità di competenza e complessità, declinato in un risultato comunque diretto e semplice.

Titolo: Clacson
Regia: Tak Kuroha
Sceneggiatura: Tak Kuroha
Fotografia: Carlo Miggiano
Attori: Francesca Faiella, Cristiano Di Vita
Montaggio: Cecilia Falsoni
Genere: Cortometraggio