Febbraio 2009. Lavoricchio per un giornale che si chiama Le Voci del Villaggio e mi chiedono di telefonare a Vittorio Arrigoni e intervistarlo per il pezzo di Giro del Mondo: una specie di inserto estero che, nel numero precedente del bimestrale, aveva visto protagonista – ironicamente – Barack Obama.

Non sapevo bene chi fosse Vittorio: sapevo che aveva scritto degli articoli per Il Manifesto sull’attacco israeliano alla Striscia e che da anni era un attivista per i diritti umani: termine un po’ retorico che non solleticava la mia curiosità – anzi, avevo abbastanza la “luna storta” all’idea di dover far tardi in redazione per quella telefonata.

Ligia al dovere e allo stipendio, chiamai Arrigoni e fu subito qualcos’altro. Sentire i rumori della vita di Gaza in sottofondo mi fece capire – distintamente – che Gaza esisteva, quanto e più di Milano, che la realtà tangibile non finisce laddove termine la mia prospettiva: oltre i miei occhi e ciò che possono vedere, oltre queste mani adesso sulla tastiera del computer, c’è un universo che palpita e se ne infischia di me. E quella sera Vittorio mi regalò questa consapevolezza. Insieme a un pezzo della sua umanità.

Avrei voluto incontrarlo di persona, dopo, avrei voluto andare e vedere coi miei occhi cosa stava accadendo a Gaza… ma le mie piccole paure di borghesuccia pseudointellettuale mi hanno trattenuta nel quotidiano tran tran. E adesso è troppo tardi.

Quando ho sentito, ieri sera, che Vittorio era stato rapito e, stamane, del suo assassinio, ho pianto – ho pianto per un estraneo che mi sembrava di conoscere e che valesse più di tanti, troppi volti che saluto quotidianamente per dovere, superficialità, comodità. E d’un tratto ho realizzato, fissando il sole, che lui – Vittorio – non avrebbe più potuto farlo, né sentire il rumore del mare. Per me, che sono atea, la morte è la privazione. Per me la morte è non poter più vedere la luce e il mare e io, allora, ho voluto fissare quel sole che è spuntato dalla coltre di nubi e pensare di farlo anche per lui. Perché la morte non è mai giusta, e non ha mai senso. La morte è dolore: per chi va – solo – e per gli altri che restano. Ma perché di un essere umano come Vittorio Arrigoni non resti solo la retorica di Stato, è ora che tutti quanti facciamo qualcosa anche per lui. E quello che lui mi ha insegnato è l’importanza della verità. Mai tacere. Mai pensare che con le bombe si possa esportare la democrazia. Mai farsi abbindolare dal potere che entra in guerra per biechi fini geopolitici ed economici ma si ammanta di grandeur – difendendo gli insorti in Libia ma lasciando morire 1500 palestinesi a Gaza; mentendo all’opinione pubblica sui tunnel come si è mentito sulle armi di distruzioni di massa di Saddam; facendo accordi economici con il regime cinese mentre si finge comprensione per il popolo tibetano, ricevendo in semiclandestinità il Dalai Lama. Mai dimenticare e mai smettere di essere lucidi. Mai rinunciare a lottare per il dialogo, per la pace, per un’umanità umana e un’economia al servizio di questa umanità (e non viceversa).

E allora ho rispolverato quell’intervista. Che in realtà è solo la trascrizione della testimonianza senza filtri di un uomo che aveva deciso di non cedere alle paure e di impegnarsi in prima persona, con la propria voce, il proprio corpo e i propri sogni.

Questo il testo integrale. Questa la voce di Vittorio, la sua lucidità nei confronti di quanto era accaduto e, soprattutto, quanto stiamo vivendo oggi: da un Presidente insignito del Nobel per la Pace che va allegramente in guerra – come il nanetto di Biancaneve alla miniera – alle rivolte che si sono verificate in tutto il Nord Africa e i cui prodromi Vittorio aveva letto nell’Egitto di Mubarack.

Perché la tua voce non si dimentichi, Vittorio. Perché restiamo tutti umani, Stay Human (come canta Michael Franti): “To be rhymin’ without a real reason/is to claim but not to practice a religion/if television is the drug of the nation/satellite is immaculate reception/… stay human”.

Abbiamo contattato telefonicamente Vittorio Arrigoni, l’unico corrispondente e attivista per i diritti umani che è stato a Gaza fin dall’inizio dell’attacco israeliano ed è ancora lì per l’lnternational Solidarity Movement (Ism).

Questo è il suo racconto.
«Prima del 27 dicembre la situazione era già di piena emergenza umanitaria perché un anno e mezzo di assedio aveva polverizzato l’economia palestinese di Gaza, costringendo l’80% della popolazione a vivere di aiuti, provocando un tasso di disoccupazione del 60%, uno tra i più alti al mondo, e un 47% di bambini affetti da anemia acuta», esordisce Vittorio. In sottofondo musica araba. Si torva in un bar e la voce va e viene, a folate come il vento che in questi giorni ha spazzata Gaza. «Oggi sono andato a trovare i mie vicini di casa: due famiglie con una decina di bambini. C’era stato un forte temporale e mi hanno raccontato che i bambini tremavano perché confondevano il rumore dei tuoni con quello delle bombe. La situazione è indescrivibile: 450 vittime tra i bambini, migliaia i feriti e molti di più i traumatizzati. Vedere l’assedio e il massacro: familiari uccisi, la distruzione della propria casa, è difficile da sopportare. Ci vogliono psicologici per affrontare questi traumi, ma non sono sufficienti. Certo, i bambini sono tornati a scuola e dicono che c’è la tregua, ma i falsi allarmi si susseguono e le scuole devono essere evacuate. Questa è una tipica tattica israeliana, sperimentata in Libano, dove, durante la tregua, per mesi la popolazione ha vissuto nel terrore di un nuovo attacco».

In Italia si è parlato molto dei tunnel tra Egitto e Gaza, che sarebbero serviti per il contrabbando di armi, ma Vittorio racconta un’altra verità: «Un esempio personale: i miei vestiti, il computer, il cellulare sono passati attraverso il tunnel. Durante l’assedio, durato un anno e mezzo, è bene ricordarlo, non arrivava nulla a Gaza. Nei negozi del centro, prima del 27 dicembre, il 90% della merce era Made in Egitto ed era qui grazie ai tunnel, che garantivano la sopravvivenza dei palestinesi: bestiame, gasolio, tutto ciò di cui c’era bisogno. Saranno anche state contrabbandate delle armi, ma tutti coloro che hanno visto i tunnel, compresi i giornalisti, hanno documentato che erano una minima percentuale rispetto alle tonnellate di alimentari, materie prime e medicinali. Del resto, se fossero entrate davvero tutte le armi che dicono, le cose sarebbero andate diversamente durante l’invasione. Da anni, le armi in mano alla resistenza palestinese non servono per attaccare Israele. I razzi kassam sono costruiti con tubi di ferro e si è visto che kalashnikov e lanciarazzi katyusha non servono a nulla contro i mezzi blindati. I carri armati israeliani sono entrati tranquillamente nel centro di Gaza senza che nessuna resistenza o arma riuscisse a fermarli».
Gli israeliani hanno impedito ai giornalisti internazionali di documentare quanto succedeva durante l’invasione, Vittorio è uno dei pochi ad aver visto coi propri occhi cosa sia realmente accaduto. «L’Ism è stata la sola organizzazione internazionale presente nella Striscia di Gaza durante l’attacco e, checché ne dicano i vertici militari israeliani e le agenzie di stampa, gli unici interventi chirurgici sono stati quelli dei medici che amputavano braccia e gambe a migliaia di feriti. Siamo stati testimoni dei bombardamenti alle moschee, 41 per l’esattezza quelle distrutte, come se Israele avesse concepito una propria personalissima guerra santa contro l’Islam. Per non parlare delle centinaia di edifici civili colpiti, fra cliniche, ospedali, impianti idrici e centrali elettriche. Le Ong, l’Onu e le ambulanze della Mezzaluna Rossa parlano del 90% di vittime civili. Gli edifici che ospitavano Cnn, Al Jazeera, Al Arabiya e Reuters sono stati bombardati dall’aviazione israeliana. Ci sono stati feriti e si è voluto intimorire i giornalisti, soprattutto palestinesi, che hanno rischiato molto per fare il proprio lavoro».

Dall’Italia è quasi impossibile immaginare che la vita, al di là del filo, continui o che si sia interrotta per ben 22 giorni sotto i bombardamenti. Eppure la quotidianità per migliaia di palestinesi è profondamente diversa dalla nostra: «I valichi rimangono drammaticamente chiusi o sono aperti con il contagocce. Non passa il materiale da costruzione e si sono solo rimosse le macerie dalle strade. A Gaza City siamo rimasti diversi giorni senza elettricità. Secondo l’Onu sono 21 mila gli edifici danneggiati o distrutti e 50 mila le persone prive di un tetto che vivono nelle tende o sono ospitate nelle scuole dell’Onu. Per queste ultime la situazione è drammatica perché fanno fatica a procurarsi cibo e medicinali. Le scuole sono ridotte a campi profughi. Non si vede futuro. La decisione anche italiana di far passare gli aiuti alimentari da Israele per Ramallah significa rallentarne l’afflusso a Gaza. I medici chiedono come mai non siano stati affidati fondi e aiuti alle Ong internazionali. Inoltre, da parte israeliana, le uccisioni continuano».

La situazione palestinese, con la fine dei bombardamenti, non occupa più le prime pagine dei giornali. Occorre un attentato, come quello a Il Cairo, perché se ne parli di nuovo: «Ne ho discusso con gli amici. Su Al Jazeera dicono che il governo egiziano nei prossimi giorni eseguirà molti arresti e alzerà i livelli di sicurezza, il che mi ricorda la strategia della tensione di casa nostra. L’opinione pubblica egiziana è scontenta del regime politico, e in particolare dell’alleanza con Israele, della complicità nel massacro palestinese e nell’assedio subito dalla popolazione. I palestinesi leggono quest’azione come un tentativo del Governo egiziano di alzare il livello della tensione e soffocare possibili rivolte interne».

Ma vi è speranza? I palestinesi sembra non abbiano più fiducia in niente e nessuno. «I Governi in Israele cambiano, ma la situazione palestinese no. Su Obama, l’opinione pubblica palestinese non si fa illusioni e non pensa che modificherà la politica estera Usa in Medioriente. Nessuno dimentica cosa ha detto in campagna elettorale, che Gerusalemme è la capitale indivisibile di Israele, dichiarazione illegittima dato che nessun trattato internazionale e neanche Bush ci sono mai spinti a rivendicare tanto. Non si firmerà nessun accordo di pace se Gerusalemme non sarà capitale di entrambi gli Stati. Molti ricordano Obama che, durante i bombardamenti, su tutti i canali satellitari appariva sorridente, alle Hawaii, mentre giocava a golf. Certo, non era ancora in carica, ma se avesse detto qualcosa forse si sarebbe risparmiata qualche vita».

E le vittime sono state molte di più di quanto si pensi: «Durante una guerra la verità è la prima vittima, e in effetti è stato così perché la stampa ha raccontato la guerra dall’esterno, ripetendo i comunicati dell’esercito israeliano che parlavano, come si diceva, di operazioni chirurgiche…».