Quanto mi piace sentir parlare negativamente della mia generazione, oscura razza priva d’origini e senza futuro. Lupus, un vero e proprio spettacolo, con scene, sceneggiatura, bravi attori, attenzione per i costumi e meravigliosa scenografia, il tutto nato a Benevento. Devo ammetterlo, io Lupus l’ho visto nascere.

Natale Cutispoto, capace e curioso amico dell’adolescenza, Francesca Paola Scancarello, nuova entrata nel cerchio dei creativi per giusto merito, e Valerio Vestoso, obbiettivamente un regista, un giovane ed in gamba regista, riuniti intorno ad un tavolo di vetro tra mille scartoffie.
Questa è l’immagine che ho del dolce concepimento di questo spettacolo teatrale.
Figlio di una forte attrazione è su quel tavolo e tra un caffè ed una sigaretta che finalmente la mente gravida è stata colmata dal fertile liquido dell’arte.
Qualche cenetta tra amici alla sera, il testo da finire, la ricerca del luogo più adatto alla nascita, il tutto è durato quanto una gravidanza o forse qualcosa in più.
Ah quella nascita ha emozionato tutti.
In molti la attendevano a Benevento.
Non capita spesso che fanciulli dalle origini cosi forti e dalla premesse cosi importanti nascano in certe città.
Dal primo debutto del piccolo Lupus accolto con applausi e qualche critica è passato poco tempo.
Giusto il tempo di salire sul palco che già era iniziato il primo severo esame.
I professori affermavano che era intelligente, ma non si applicava.
Ci sapeva fare il nostro Lupus, aveva tante cose da dire e rimarcare ma una volta ascoltato nessuno lo aveva più cercato.
Alla recita della scuola avrebbe interpretato l’albero, immobile, con il costume ridicolo.
Ma con l’amore che solo chi sa scrivere con passione e nutrendolo di sano teatro contemporaneo ho visto Lupus diventare un ometto.
Eh, solo l’attenzione delle sue mamme e dei suoi papà poteva garantirgli un nuovo ingresso in società.
Così cambiato, più maturo e dalla nuova visuale il nostro eroe è tornato sul palco.
Insomma il 6 settembre, al teatro Massimo di Benevento Lupus ha fatto il suo inchino dinanzi a tanti amici e qualche curioso.
Evidente l’assenza delle cosi dette autorità, visto che il giovane aveva tante cose da dir loro.
Insomma tirate su le spalle e rimboccate le maniche, eccoci.

Gli attori sono portati in scena con una carriola a luci spente, scaricati come manichini e lasciati soli.
Diverse le situazioni che Lupus ci presenta.
Nella prima i corpi passano da ominidi ad uomini attraverso le parole, quelle del dialetto, quelle che mille volte al giorno vengono ripetute.
Con suoni e gutturali tentativi gli attori diventano persone.
Un po’ come vedere il “pianeta delle scimmie”…
Da uomini gretti s’inciampa in una chiara presa in giro dei cantanti neo-melodici, a quella particolare parte del mondo.
A quei simpatici e pazienti personaggi sempre accompagnati da discutibili bellezze, che girano di paese in paese, di festa in festa rispettando e salutando amministratori o gente di potere.
Le canzoni (niente playback per Lupus) scritte per lo spettacolo sono scandite da colpi di pistola.
Nomi e cognomi sono detti ad alta voce prendendo in giro Boss, paesi e mistiche situazioni di sudditanza psicologica di una buona fetta di quello che tutti chiamano il sud dell’Italia.
Poi c’è un Nord ed un Centro ma non ne sparla mai nessuno, uffa!
Continua la danza degli attori raccontandoci di Maddalena che rilegge l’inno d’Italia cambiando alcune parole e ricordando ai presenti in sala, la cui media d’età è quella giusta per la riflessione, che il lavoro non c’è, che lo sballo ci aiuta, che c’insegnano a farcelo bastare e che tanto le grida continueranno.
Insiste, infatti, la “tiritera” della ragazza fino a divenire l’urlo di una platea.
Ora giunge la piccola tredicenne, lei si trucca e si fa bella, è immobile, mentre racconta del suo grande amore.
Peccato che sia costretta sottomettersi a questo principe azzurro che ha tanti anni in più di lei.
Ma lei è solo una donna, anzi una femmina e non ha nulla da pretendere.
Lo spettacolo culmina quando uno dei protagonisti litiga con la mamma.
Senza lavoro né speranza ci si accontenta d’essere autisti per i vari politici proponendo sempre nuovi contratti a progetto.
Fino a cercare di creare il contratto a contratto o il progetto a progetto.
E nel dolore di una canzone di Celentano si rimane con il sapore amaro del sogno della scala sociale da salire facendo attenzione a non esagerare.
Lupus è diventato grande.

Ha raccontato bene quel che tutti sanno ma che tutti tacciono.
Come per scaramanzia non si parla della situazione in cui tutti stiamo crescendo, in cui non c’è svolta ma si attende come se fossimo tutti figli del sogno americano.
O meglio non ricordo chi, ma qualcuno affermò che il sogno americano era quello di diventare ricchi, quello italiano è quello di nascere ricchi.
Questo è quello che Lupus ci ripete.
Beh, insomma, ormai è grande, ma quando crescerà, quando sarà nuovamente adulto, quando sarà riscritto da mani cambiate, vedremo cosa avrà da svelarci in più.
Lo spettacolo è tal volta lento, sporco, discutibile ma è vivo e cresce, cresce a vista d’occhio e so che la prossima volta in cui lo vedrò in scena saprà darmi ancora più pensieri, come ad una zia apprensiva.