Conoscere la morte e rimanere vivi

I tipi Lamantica Edizioni hanno dato alle stampe tre volumi di autori teatrali del 900 (Evgenij A. Evtušenko, Michel de Ghelderode, Ágota Kristóf), i quali tornano a parlarci da una posizione che a noi, uomini del ventunesimo secolo, sembra lontanissima.

C’è da chiedersi quale sia stata l’intenzione dei curatori editoriali, Federica Cremaschi e Giovanni Peli, per la quale giungono a noi questi lavori. Intuizione felice? Certamente sì, allietata per soprannumero da una confezione tipografica suggestiva – copertina bianca granulosa e fogli color carta da zucchero – che a sfogliarla sembra di piluccar confetti. Dolci? Non proprio, anzi tutt’altro. A cercar la verità e trovarla, scriveva Ennio Flaiano, ci si rimane male, perché è un posto freddo, spoglio, ci piove dentro. Malgrado ciò, abitare questi piccoli e delicatissimi volumi dolceamari, è esperienza intellettuale confortante, diremo tra poco perché.
Si tratta di scritture di una secchezza chirurgica (Kristóf), di un taglio languido direttamente nel cavo faringeo del tempo (Evtušenko), di disilluse medicine che promettono di guarire dalla morte, ricordandoci piuttosto una vita che è essa stessa malattia (de Ghelderode). Difficilmente è mai esistita tanta felice inopportunità editoriale, se non riferita a capolavori postumi. Qui l’operazione Lamantica si rivela felice e “inopportuna” doppiamente, in luogo di un ritorno lucidissimo di opere che, come ogni classico, scopriamo precederci sempre nel nostro cammino da elefanti.

La pista che ci offre Lamantica condurrà il lettore a specchiarsi obliquamente, a percepire il freddo della verità, quasi questi testi fossero una corda tesa, oltre la quale subire la stessa sanissima mortificazione – suggestiva e dolorosa insieme – che questi autori hanno subito dalla Storia. “Dolorosa”, e forse non è corretto dirlo: chi compra oggi un testo – per di più teatrale – per darsi al tremore quasi epilettico della grande drammaturgia? Forse chi spera che anche per leggere un testo scenico sia necessario esporsi a un certo pericolo, misurato certo, se non altro per sentirsi ancora vivi, malgrado il tocco lieve – ma pur esteticamente “mortale” – di queste narrazioni.

Cosa unisce i tre volumi? Innanzitutto una visione tragica del tempo, al di fuori di ogni caratterizzazione sociale che tanto seduce ogni lettore compassato. Vuol dire che questi “veggenti” installano dentro la propria visione un occhio che non consola, ma introduce al “freddo” di esistenze che all’improvviso si trovano a mancare dell’ideologia che pure sostiene nel cercare alibi per ogni cosa, soprattutto per ogni cosa che non va. Ogni ideologia è costruita storicamente per far da velo a qualcosa di insopportabile.
In Ágota Kristóf, con L’espiazione si tratta di uno zelante e quasi sindacalizzato lavoratore della tortura, il quale vedrà “vedersi” all’opera, traendo da questo lo scavo involontario di una atroce coscienza. In L’epidemia i personaggi sono catturati da un regime che è causa di un allentamento del legame con la vita, allentamento che deve per necessità politica essere chiamato “virus”; la pandemia suicidaria derivante dev’essere intesa come un’emergenza da combattere burocraticamente, non per salvare la singolarità dell’individuo, ma per salvare il funzionamento etico della macchina di stato. Tutto ciò genera un clima grottesco in cui ognuno (l’aspirante suicida e il “salvatore”) cerca di fuggire dalla retorica della repressione sanitaria, in grado di fare del mondo un lunapark in cui la morte – non potendo essere guardata negli occhi – diviene una sorta di gadget per un gioco aperitivo.

Se nell’ungherese Kristóf l’utilizzo di una lingua “nemica” (il francese) dà alla struttura dell’opera un secco carattere estraniante, in Evtušenko la narrazione drammaturgica è nostalgicamente languida, giocata com’è nel pendolo temporale tra due epoche. In Se tutti i danesi fossero ebrei, la principessa Leonora Cristina – rimasta prigioniera ventidue anni nel Castello di Copenaghen nella prima metà del seicento – torna ai giorni dell’olocausto a tormentare il reale. Appare nei panni della figlia di un commerciante di pietre ebreo catturato dalla Gestapo. La storia torna sul luogo del delitto permettendo l’apertura di porte dove entra sì un potere annichilente, ma anche la sua nemesi. Leonora appare nella forma di chi sopravvive alla sofferenza politica subita, per tornare a soffrire ancora, ma stavolta conducendo per mano la Storia come fosse un bambino “cattivo”. Questo è impersonato da un Colonnello nazista annoiato e perverso, languidamente attratto dal bene o dal male in base al proprio cedimento sensuale, prigioniero di un gioco degli scacchi di cui è pezzo tra pezzi.

In La figlia di Giairo, De Ghelderode – prendendo spunto dalla narrazione evangelica – ci conduce al delirio di onnipotenza umano depositato su un dio voluto come artefice miracolare in grado di sconfiggere la morte, senza badare a come il risorto possa vivere avendo in sé conoscenza della morte stessa. Colui che restituisce alla vita dopo la morte sarà inevitabilmente odiato, quando tutti capiranno che trarre dal nulla una vita non la risolve affatto, e che la vita può “risolversi” solo nella morte.

In tutte le opere è questa conoscenza tanatologica che unisce le narrazioni, una conoscenza che se per Evtušenko diviene politica attraverso Leonora, per Kristof può divenire tale solo dandosi come corpo offeso dallo zelo ideologico, ma rivolto contro sé stesso, come se il soggetto trovasse consistenza nel far esso stesso esperienza di morte in vita. La morte come esperienza per de Gelderode è una maledizione che schiaccia la figlia di Giairo – Blandina – in un tentativo di consapevolezza impossibile, quindi doppiamente distruttivo, per sé e per gli altri. È questa autodistruzione l’ultima volontà di potenza contro l’ideologia totalizzante, che cerca di far morire nell’uomo una seppure illusoria libertà, perfino quella di tornare al nulla, per far vivere i demoni di un ordine implacabile.
I totalitarismi che abbiamo lasciato alle spalle – sembrano dire questi autori – non si sono rassegnati, tutt’altro; ci stanno seguendo, aspettando il momento giusto per mordere i nostri corpi, renderci ciechi e sordi, disporre della vita ma anche della nostra morte, come in un baraccone degeroldiano (Il sonno della ragione) dove morire è lussuriosamente “godere”, se all’uomo è inibita la facoltà di desiderare. La speranza che questi autori ci danno è depositata in una facoltà sconosciuta della storia, per la quale sopravvive all’uomo la morte stessa, quell’ente cioè che più di ogni altro fa verità, e che forse davvero non è la fine di tutto.

Se tutti i danesi fossero ebrei
autore Evgenij A. Evtušenko
a cura di Lorenzo Gafforini
con un saggio di Francesco De Napoli
traduzione di Evelina Pascucci
Lamantica Edizioni
15 aprile 2022

Pièces
La figlia di Giairo – Il sonno della ragione – Il sole tramonta
di Michel de Ghelderode
introduzione di Anna Paola Soncini Fratta
postfazione di Riccardo Benedettini
traduzione di Federica Cremaschi
Lamantica Edizioni
15 novembre 2021

Due pezzi teatrali
L’espiazione – L’epidemia
di Ágota Kristóf
Introduzione di Riccardo Benedettini
traduzione di Federica Cremaschi
Lamantica Edizioni
2017
FUORI COMMMERCIO