I bambini ci guardano

Dal 3 aprile nelle sale italiane il nuovo film di Kore-eda Hirokazu, pellicola di straziante bellezza che affronta il delicato tema della paternità. Perché padri si diventa, non si nasce.

Kore-eda Hirokazu lo ammette senza timore: la paternità è una cosa che lo ha colto impreparato. Nonostante abbia una figlia di 5 anni, ogni tanto si sente ancora un estraneo rispetto a quell’essere che è frutto dell’incrocio tra il suo Dna e quello di sua moglie. Ma è poi il Dna a definire la genitorialità? Bisogna ancora far riferimento a parametri esclusivamente genetici per definire un rapporto così delicato? E’ su questo tema che il regista s’interroga in Father and Son, pellicola nella quale una coppia viene chiamata dall’ospedale in cui è nato il loro piccolo Keita: vengono brutalmente informati del fatto che il bambino che hanno cresciuto per sei anni non è il loro figlio biologico in quanto erroneamente scambiato con il bambino di un altra coppia, nato lo stesso identico giorno. Una notizia difficile da accettare e da metabolizzare soprattutto per il padre in questione, Ryota (interpretato da un bravissimo Fukuyama Masaharu), che destreggia magistralmente l’evoluzione di un padre che da duro e apatico, lentamente comprende che l’esperienza della paternità è bella solo se vissuta con gioiosa fatica, con coinvolgimento totale. Al suo fianco una moglie devota e permissiva, interpretata dalla toccante Ono Machiko; anche lei affronta un percorso di affascinante crescita in quanto da iniziale “moglie-gheisha”, ben presto si muove su una posizione ben più autoritaria quando la situazione volge verso l’assurdo. Difatti per una attimo le due coppie di genitori coinvolte nella vicenda – molto intensi anche i due attori che interpretano l’altra coppia, Maki Yoko e Lily Frank – decidono di tentare uno scambio dei bambini per riportarli all’interno dei loro “ranghi” biologici, ma ben presto diviene evidente agli occhi di tutti quanto la genitorialità sia dovuta alla quantità e alla qualità del tempo che si passa con i propri figli, non certo al sangue che scorre nelle loro vene.

Attraverso la nitidezza della pellicola, il rigore narrativo (forse a volte troppo didascalico), il predominio del campo stretto sui piani lunghi e, infine, attraverso un ritmo della narrazione cauto e disteso, questo film non lascia dubbi sulla sua provenienza nipponica: con questa matrice stilistica tutti questi elementi contribuiscono a creare uno straniante effetto di dissonanza tra la calma piatta della narrazione e la tempesta interiore che sconvolge i genitori coinvolti nella vicenda.  Le tematiche raccontate sono di una durezza incredibile, ma proposte con la dolcezza e la cautela di chi sa che non ha delle risposte certe a riguardo: il dolore della madre che in quanto tale “avrebbe dovuto accorgersene”; la sofferenza di un padre privato dell’unico dato certo che lo lega al figlio, il dna; la sofferenza di un bambino che non viene informato dei fatti, e si vede imporre delle scelte e che non può che sentirsi  tradito, abbandonato.
Un film di straziante bellezza, soprattutto per il finale commovente e per niente retorico o scontato: fino alla fine temiamo il peggio ma scopriamo che il perdono è ancora più grande se concesso dai bambini.

Titolo originale: Soshite Chichi Ni Naru
Regia: Kore-eda Hirokazu
Sceneggiatura: Kore-eda Hirokazu
Attori principali: Fukuyama Masaharu, Ono Machiko, Maki Yoko, Lily Frank
Fotografia Takimoto Mikiya
Prodotto da Film, Inc.
Durata: 120′
Premio della giuria al festival di Cannes nella sezione “Un certain regard”
nelle sale italiane dal 3 aprile 2014