Un sogno dentro al sogno

Un esempio di cinema complesso e raffinato, come in Italia è ormai difficile incontrare. Senz’altro da vedere.

Nel 1815, il conte Potocki lavora alla stesura del suo romanzo nello studio della villa. Uno stacco di montaggio ci conduce in un’altra epoca e in altro luogo: ci troviamo ora nel maggio del 1734, dopo la battaglia di Bitonto che estese l’egemonia di Carlo di Borbone sul regno di Napoli. Il capitano delle guardie vallone Alfonso di Van Worden viene incaricato di recarsi nella capitale del reame il prima possibile. Nonostante gli ammonimenti del suo servitore Lopez a non attraversare l’altopiano delle Murgie, in quanto ritenuto infestato da spettri e demoni, Alfonso decide di percorrerlo ugualmente, trovandosi circondato di figure magiche e misteriose, cabalisti e predoni che lo condurranno in un viaggio lungo dieci giorni ricco d’insidie e d’avventure che sarà per lui un autentico percorso iniziatico

Come il Decameron. I racconti di Canterbury e Le mille e una notte (tutt’e e tre portati sullo schermo da Pasolini negli anni settanta) e Il cunto de’ li cunti di Basile, più recentemente tradotto al cinema da Garrone, anche il romanzo alla base del film di Rondalli prevede un racconto che funge da cornice e diverse storie che s’intrecciano fra di loro, secondo una costruzione a scatole cinese o in mise en abȋme. La cornice è infatti costituita dal viaggio intrapreso dal protagonista, mentre i vari incontri da lui compiuti durante il cammino si configurano come altrettante storie nella storia. A differenza del romanzo, il film possiede una struttura narrativa ancor più complessa, in quanto i racconti che fanno da cornice sono due: il primo è costituito dallo scrittore che compone la sua opera; il primo, come nel romanzo, è invece rappresentato dal viaggio di Alfonso in territorio ignoto e misterioso. Il film tematizza dunque la presenza dell’istanza narrante inscrivendola direttamente nel racconto stesso, non diversamente da quanto fecePasolini nei Racconti di Canterbury, dove interpretava l’autore dell’opera alla base del suo film, lo scrittore trecentesco inglese Geoffrey Chaucher. Un’ulteriore consentaneità coi romanzi sopra menzionati (specialmente, in questo caso, Le mille e una notte e Il cunto de’ li cunti) è rinvenibile nella forte presenza dell’elemento magico e favolistico, che permea molte delle avventure del protagonista, tanto che ben s’attaglia a quest’opera la massima della schiava Sherazade, narratrice dei racconti che compongono Le mille e una notte, secondo la quale la verità non si trova in un sogno ma in molti sogni. L’abbandono alla dimensione onirica è dunque assimilato a quella dell’affabulazione, al piacere ovvero di raccontare e di sentirsi raccontare storie; elemento questo che costituisce il vero trait d’union fra tutte le opere qui citate, in quanto accomunate dalla medesima struttura in mise en abȋme, dove il racconto si duplica in altri racconti in una progressione potenzialmente infinita. Ma non è solo sul piano narrativo che il film spicca nel panorama italiano coevo: l’aspetto formale risulta infatti parimenti curato e ricercato, complesso e finanche fastoso, tanto da conferire all’opera una notevole eleganza e finezza, che si traduce in una notevole capacità di seduzione nei confronti dello spettore. Notevole è tal riguardo il senso dei luoghi del regista e del suo operatore, che si vale di un paesaggio brullo e scabre come quello delle Murgia, punteggiato di chiese rupestri che incombono minacciose sui personaggi. Nel deserto del cinema italiano coevo, il film di Rondalli spicca tanto per la complessità e la ricercatezza di messinscena e messa in forma, quanto per la cura nell’intrecciare le molte storie di cui si compone. Il fasto del costumi e delle scenografie, che convogliano la sensazione di un esotismo non solo spaziale ma anche temporale costituiscono un valore aggiunto che contribuisce alla complessiva riuscita dell’opera, che si vale anche delle ottime interpretazioni: su tutte, si segnala quella della sempre brava Valentina Cervi e quelle dei veterani Alessandro Haber, Flavio Bucci e Umberto Orsini.

Titolo originale: Agadah
Regia: Alberto Rondalli
Soggetto e sceneggiatura: Alberto Rondalli, liberamente ispirato al romanzo Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki
Fotografia: Claudio Collepiccolo
Montaggio: Alberto Rondalli
Scenografia:Francesco Bronzi
Costumi: Nicoletta Taranta
Interpreti: Pilar Lopez de Ayala, Jordi Mollà, Caterina Murino, Nahuel Pérez Biscayart, Valentina Cervi, Alessio Boni, Flavio Bucci, Camilla Diana, Ivan Franek, Umberto Orsini, Alessandro Haber, Marco Foschi, Isabella Torre
Prodotto da Pino Rabolini
Genere: avventura, fantastico
Durata: 126′
Origine: Italia
Anno: 2017