L’immaginario televisivo e l’ideologia della casa, tra deiezione e spontaneità

WandaVision non è una delle tante tappe dell’ormai sterminato Universo Marvel, si tratta di un suo tassello decisivo, di un momento estremamente significativo non tanto per lo sviluppo complessivo dello storytelling, così articolato e stratificato, quanto per le implicazioni di tipo filosofico e concettuale che emergono dal suo stile e dalle sue soluzioni espressive così originali e stranianti.

Con WandaVision, l’immaginario favolistico giunge ad autocoscienza: la dimensione metatestuale della serie infatti, senza mai interrompere la dimensione spettatoriale e la “quarta parete” – come accade sovente in Deadpool – resta ancorata alla finzionalità, ma allo stesso tempo, al di là delle dinamiche narrative specifiche all’Universo Marvel, ci racconta qualcosa della nostra cultura. Come per La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen, non si tratta di bucare la parete di separazione tra il film e il fruitore, quanto di mettere in evidenza la falsità del film nel film, della finzione nella finzione che esce e tocca il primo grado di finzione, che è quello dell’immagine a cui assistiamo. Il film resta un film insomma, così come WandaVision resta una serie del’Universo Marvel e non la dichiarazione della sua falsità.

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Più precisamente, WandaVision mette in evidenza la funzione che il mondo della televisione, cangiante a seconda dei decenni, ha avuto e continua ad avere nell’immaginario contemporaneo. Facciamo delle precisazioni a tal proposito: non si tratta in termini vaghi di “mondo della televisione” quanto della “serialità televisiva”, d’altronde, quella che stiamo vedendo è una serie che si pone come “episodio ulteriore” dell’evoluzione estetica e stilistica che ha caratterizzato la televisione americana dagli anni 50 a oggi.

Uscendo dall’illusione generata da Wanda, ci ritroviamo comunque nell’illusione della Disney perché quella che stiamo guardando resta una serie in stile “anni 2020”. Si tratta di combattere e abbattere l’edificio immaginario definito dalla cultura televisiva, ma questo è d’altronde possibile? La stessa definizione di “serie tv” appare oggi obsoleta, dal momento che il medium di riferimento della nuova serialità non è tanto la televisione quanto il web – o la televisione rimediata tramite il web, ovvero la smart-tv. Da questo punto di vista, in senso metaforico WandaVision sancisce il superamento della televisione per il nuovo medium digitale, ma la messa in evidenza del ruolo dell’immaginario televisivo sulle nostre vite, sulle nostre emozioni, sulle nostre categorie di riferimento ne attesta anche il riconoscimento della forza. Il raddoppiamento semantico, perciò, da un lato denuncia la dinamica di attrazione prendendone un distacco “ironico”, dall’altro attribuisce e riconosce a tale attrazione tutta la sua innegabile efficacia e potenza.

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Cosa significa vivere bene? Cosa significa essere felici? La domanda potrebbe essere posta anche in questi termini e la risposta potrebbe essere “vivere come nelle serie tv” in case bellissime, tra persone affettuose, dove i problemi vengono affrontati e superati nel corso di un singolo episodio, sempre col sorriso sulle labbra e accompagnati dalle “risate over” tipiche delle Situation Comedy. In altri termini, la “rimediazione della felicità”.

Ce l’aveva già mostrato in maniera sagace Sam Esmail con l’inserto metatestuale del sesto episodio della seconda stagione di Mr. Robot: nell’incipit della puntata, Elliott si ritrova protagonista di un episodio di una delle sit-com americane più celebri della storia, Alf. La scena è particolarmente inquietante nella sua demenzialità, perché entra in conflitto visivamente ed esteticamente con lo stile della serie all’interno della quella è contenuta e anche perché si fa riferimento con questa devianza alla psicosi del protagonista. D’altronde il significato è chiaro: l’immaginazione di ciascuno di noi e la nostra stessa idea di felicità, sono già da sempre contaminate dall’immaginario televisivo.

Questo si dimostra vero in special modo per chi è cresciuto e ha trascorso l’infanzia e la giovinezza in Unione Sovietica e guardava con occhi incantati il mondo patinato e perfetto delle serie televisive americane: per questo, in maniera inaspettata, si può pensare che la serie affiancabile da un punto di vista concettuale a WandaVision sia The Americans, che infatti indaga con uno stile diverso un tema molto vicino, ovvero come entrano in relazione o in conflitto due immaginari così agli antipodi: il mondo del consumismo capitalista americano e il mondo del socialismo reale e del comunismo sovietico. Qual è maggiormente capace di esercitare il proprio fascino sull’altro, arrivando persino a contaminarlo? Si tratta di una questione che ritorna nella contemporaneità, basti pensare a Superman: Red Son.

Se vogliamo ragionare in termini più filosofici, il tema della felicità è connesso da un lato alla sua fattibilità, dall’altro al suo riconoscimento. Si può riconoscere la felicità quando ci si è immersi? O non c’è bisogno di uno “schermo” per poterla riconoscere come tale? Se come affermava Theodor W. Adorno, in maniera quasi religiosa, “l’unico rapporto fra coscienza e felicità è la gratitudine”, allora una felicità che non sia cosciente di esserlo non potrebbe essere felicità se non negli occhi di chi assiste, ovvero negli occhi dello spettatore televisivo.

Soprattutto se la propria felicità è pagata col sacrificio e il dolore degli altri, che sono costretti a sottomettersi alla tua volontà, e da questa prospettiva l’argomentazione finale di Christof, regista e autore del The Truman Show nell’omonimo film, non fa una piega: il mondo di Truman è assoluta felicità, assoluta tutela, anche perché gli attori che vivono a Seahaven non sono costretti da nessuno ma sono attori professionisti. Ma vedendo The Truman Show la domanda potrebbe essere: che senso ha essere star internazionali superpagate se poi la mia vita si riduce alla partecipazione allo show? E ancora, siamo proprio convinti che Peter Weir volesse insistere sulla natura oppositiva tra “mondo vero” e “mondo fittizio”? O non è forse vero che il mondo di The Truman Show è molto più vicino alla vita reale di quanto pensiamo, con tutte le sue ipocrisie e l’invasività di messaggi subliminali e pubblicitari?

WandaVision e The Truman Show sono il mondo delle “deiezione” avrebbe detto Heidegger, dell’inautenticità, ma non in maniera dissimile rispetto alla vita reale, che si struttura e si definisce a partire dall’influenza di modelli, linguaggi e comportamenti tratti tanto dal cinema, quanto soprattutto dalla televisione. Le comparse di The Truman Show recitano, quelle di Westview in WandaVision sono costrette a quel ruolo: si tratta di due facce della stessa medaglia, che esprimono ottimamente il rapporto che intercorre tra “recitare una parte” e vivere autenticamente, perché come sapeva Sartre noi recitiamo – senza sapere di recitare – in ogni momento della nostra quotidianità, e il lavoro delle spie del KGB di The Americans è proprio questo: recitare, interpretare la felicità, il sogno domestico degli americani.

D’altronde Truman non potrebbe non uscire e la città contenuta nel campo elettromagnetico non può non venire distrutta, nel momento stesso in cui ai personaggi viene attribuita la consapevolezza della menzogna: non si può essere felici mantenendo la coscienza della falsità. Quando Wanda si rivolge teneramente a Visione, dicendogli “questa è la nostra casa”, è già annunciata l’impossibilità straziante di confermare quell’ambiente in quanto “casa”. E casa è anche famiglia, amore per i propri cari e soprattutto per i propri figli.

Non è vero, quella non è la loro casa, o meglio ne va della definizione di “casa”. Cosa è la “casa”? La casa è ciò che accoglie, è ciò all’interno della quale noi possiamo essere spontanei e il godimento dell’abitudine. È habitus, appunto. È privatezza assoluta, è impossibilità di accesso da parte delle autorità, almeno nelle culture democratiche e liberali, per questo è così ambita e sognata da Wanda.

Cosa molto diversa da un’altra casa protagonista in una serie come Why women kill, una casa che funziona come raccordo del montaggio parallelo fra tre epoche differenti, che resta la stessa e diviene di volta in volta il luogo di un delitto diverso, proprio perché non è casa nel senso autentico del termine, ma ambiente estraneo legato al tradimento.

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Ma il fatto che la “promessa” malinconica di Wanda non venga rispettata ci dimostra che, in fondo, la “casa” non esiste più nei termini dell’appartenenza spontanea: casa è mitologia consumista, casa è ciò che l’immaginario ha definito fosse casa, perché casa è l’orizzonte che anticipa il nostro desiderio e lo definisce, gioca in anticipo rispetto ai nostri stessi pensieri e rispetto alla nostra coscienza. Casa è “ideologia pratica” e concreta per dirla con Althusser, ideologia agita, sentimento, seconda natura.

Marcello Rubini, nella Dolce Vita, si metta a definire in vario modo Sylvia. Al personaggio interpretato da Mastroianni, sfuggono le parole; nell’elenco, Marcello dice all’attrice americana di “essere tutto”, la prima donna, la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo, il diavolo, e poi chiude convincendosi egli stesso di aver trovato la definizione azzeccata: “ah ecco cosa sei, la casa!”. Sappiamo che la Dolce Vita, film del 1960, racconta in maniera tragica e cinica la trasformazione antropologica e sociale avvenuta in Italia col boom economico, complice il contributo nella sceneggiatura di Pasolini. Questo dialogo ci dice questo: la casa non è più il focolaio domestico dell’Italia pre-industrializzata, ma sono i miti della cultura consumista americana esportata in tutto il mondo. Fin nell’Universo Marvel e nell’URSS dell’universo parallelo di WandaVision.

WandaVision
Paese USA
Autori Jac Schaeffer, Matt Shakman
Anno 2021
Distribuzione italiana Sky Atlantic
con Elizabeth Olsen, Paul Bettany, Debra Jo Rupp, Fred Melamed