La meta è partire

Antonio Morabito racconta la propria carriera diplomatica in un libro biografico, inteso come una valigia da disfare all’arrivo a destinazione, sapendo come per conquistare una meta, bisogna aver chiara la propria origine.

Valigia diplomatica di Antonio Morabito, è un guardarsi alle spalle sulla linea del tempo, una linea che – come sappiamo bene – viaggia in un un’unica direzione. Spesso desideriamo fermarla, e con la conoscenza dell’oggi, fantastichiamo di tornare ai momenti in cui avremmo fatto cose diverse. Riparare torti subiti? Invertire il guasto di quelli commessi? Niente di tutto questo. Morabito sembra non aver rimpianti, o accadimenti dei quali avrebbe cambiato il verso. Questo sguardo rappacificato forse si deve al profondo senso cristiano, mediato dall’educazione familiare, dall’esperienza di chierichetto a Gallina – il piccolo paese calabro in cui è nato -, dall’attrazione esercitata dalla vocazione religiosa, applicata poi a un’etica del lavoro al servizio del proprio paese. 

Morabito parla con gli stessi toni della fede in Dio come di quella nello stato. Pur sapendo come non siano la stessa cosa, Morabito sembra fondare la seconda sulla prima, scegliendo la carriera diplomatica come una missione, ma anche come una sorta di ascetismo. La bellezza della propria terra, sensuale come il profumo del bergamotto, si lega da subito ad un sentimento di perdita, come l’inseguimento collezionistico a Pierluigi Pizzaballa, la introvabile figurina dell’album dei calciatori “Panini”. 

L’ambasciatore parla della propria terra con un senso di ineluttabilità, come se si stabilisse un’equazione con l’infanzia, e crescere significasse doversene separare. Se la Calabria è “un cono d’ombra”, questa sembra associarsi ai racconti dei terremoti, ad un alone di morte fatta personaggio dalla nonna Mica, creduta uccisa dal sisma del 1908, il cui flebile lamento di bambina fu udito poco prima della sepoltura. Forse la febbre di movimento del nostro protagonista, nasce dal dover continuamente fuggire un senso incombente di morte, contro cui è necessario non essere mai in casa, avere in sospetto la propria personale ontologia, per sentirsi sempre stranieri, seppure sotto l’egida di un conquistato rango araldico. 

La raggiunta posizione diplomatica predispone ad una estrema sorveglianza di sé stessi.  Dopo il superamento del concorso, l’apprendistato si riassume in massime epigrammatiche: “Nelle riunioni di lavoro non si assente, né dissente”; “Il giovane diplomatico a tavola apre bocca solo per mangiare”. L’estroversione può essere un punto di debolezza e essere facilmente scambiata per superficialità. Agli incontri diplomatici è buona norma appuntarsi sui biglietti da visita alcuni elementi fisiognomici, che aiutano a evitare spiacevoli equivoci. Le norme protocollari sono esse stesse la sostanza. Predispongono il professionista diplomatico a porsi sempre l’interesse del proprio paese, senza far mancare il rispetto, facendosi guidare dalla ricerca della verità come una tessitura faticosa e minuta, in un territorio che sta tra sé e l’altro.  

Mi chiedo come si possa conciliare l’entusiasmo di un sogno, con la necessità di tenerlo vivo in un ambiente così calligrafico, che nell’immaginario è popolato da funzionari intenti in oscure procedure. Tra la luce e l’ombra, un agente consolare è certamente un uomo d’alto rango, ma allo stesso tempo è portatore di una lontananza, come nel racconto della propria esperienza al consolato di Mendoza, in Argentina. Forse fare il console di un paese lontano vuol dire incarnare questo paradosso, tutto simbolico, tra il sentirsi sé stessi ma anche stranieri, ovunque ci si trovi. 

Il senso della propria terra, forse si può avere solo se ne stiamo calpestando un’altra. L’appartenenza a sé stessi, alla propria storia, al proprio paese, si coglie nel momento del distacco, come per Giuseppe Ungaretti citato da Morabito, che pur essendo nato ad Alessandria d’Egitto, fu registrato a Lucca a causa dei natali genitoriali, città con la quale si ricongiunse solo all’età di trentuno anni. «In queste mura – scrive Ungaretti citato dall’autore in esergo – non si sta che di passaggio. Qui la meta è partire». Con questo volume Antonio Morabito si confronta con quanto un uomo può saperne di passato e avvenire, nel punto esatto in cui origine e destino si congiungono, e arriva il momento di lasciare la propria umana eredità. 

Antonio Morabito
Valigia diplomatica
Mind Edizioni, Milano, 2017