Radici, corpi, identità, fughe

Il romanzo seriale di formazione Unorthodox e il suo meritato successo.

Unorthodox è decisamente una delle (mini)serie più apprezzate di questa prima parte dell’anno. Complice anche la quarantena, è oggetto di analisi e riflessioni su tutti i principali canali social, da molte parti del mondo.

Prodotta da Netflix e ideata dalle showrunner Anna Winger e Alexa Karolinski, Unorthodox è tratta – con alcune significative libertà – dall’autobiografia Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots della scrittrice Deborah Feldman.

Protagonista è Ester Shapiro, detta Esty (Shira Haas), diciannovenne cresciuta nel quartiere Williamsburg di Brooklyn all’interno di una comunità chassidica (ebraismo ortodosso), priva di un’istruzione adeguata e forzata a sposarsi giovanissima.

Dopo un solo anno di matrimonio, subito dopo aver saputo di essere incinta, Esty – grazie all’aiuto della sua insegnante di pianoforte – decide di scappare a Berlino e farsi una nuova vita.

Nella capitale tedesca si trova la madre Leah (Alex Reid), che quindici anni prima aveva, a sua volta, abbandonato la comunità e che adesso convive con un’altra donna. Tuttavia Esty decide di non andare subito a trovarla e, casualmente, fa amicizia con un gruppo di studenti del conservatorio di Berlino. Intanto, dall’America, vengono a ricercarla il marito Yanky (Amit Rahav) e suo cugino Moishe (Jeff Wilbusch).

Girata principalmente in Germania, questa nuova produzione di Netflix cerca di essere sin dal titolo programmatico «all’insegna dei tempi», mettendo in scena la storia di una donna che, affrancandosi dalle rigide tradizioni famigliari, ritrova sé stessa – a Berlino Esty riscopre il rapporto con il proprio corpo e trova la forza per sostenere l’ammissione al prestigioso conservatorio.

Il racconto dell’emancipazione di una donna è un canovaccio che, declinato in diverse maniere, accomuna numerose narrazioni seriali e filmiche uscite in questi anni di rivendicazioni di genere: dai due Gloria Bell di Sebastián Lelio al candidato all’Oscar Il diritto di contare, passando per l’Lgbt drama The Danish Girl e il film supereroistico Wonder Woman fino ad arrivare a piccole ma significative produzioni italiane come Vergine Giurata di Laura Bispuri.

Se una prima particolarità che caratterizza Unorthodox rispetto a parte dei film riguardanti tematiche affini è il fatto di essere stata concepita, scritta, diretta e interpretata da un team creativo prevalentemente femminile, ciò che la rende più originale della media sono, da un lato, la verosimiglianza e il senso del realismo con cui viene sviluppato il percorso umano di Esther e, dall’altro, il particolare legame che la serie crea con la questione dell’identità ebraica.

Tra gli elementi chiave del suo successo va annoverato il fatto che si tratta della prima produzione Netflix recitata in larga parte in lingua yiddish; come afferma la stessa Deborah Feldman nel dietro le quinte, «quelli come me non si sono mai visti riflessi nelle storie della cultura popolare, perciò non sappiamo raccontarci».

Rappresentare la minoranza chassidica Satmar di Brooklyn da cui Esty fugge era un terreno pericoloso, su cui il duo Winger-Karolinski si è saputo muovere con abilità. La comunità ultraortodossa di appartenenza non è mai demonizzata o rinnegata né dalla regia di Maria Schrader né dal personaggio di Esty, che anzi alle sue tradizioni musicali si affiderà nella scena dell’audizione; il suo passato doloroso non viene negato o rimosso, bensì accettato e sublimato nell’espressione artistica – cantare in pubblico era proibito alle donne e le stesse lezioni di piano a cui prende parte Esther erano mal recepite dalla famiglia del marito.

Senza sfociare in un «politicamente corretto» che sarebbe stata con ogni probabilità la sua rovina, Unorthodox racconta la comunità Satmar con una precisione quasi documentaristica: tutto è veritiero, fino ai più minuti dettagli dei cerimoniali, e anche gli aspetti più problematici delle loro tradizioni morali – quelle relative alla prima notte di nozze e l’apprensione che si viene a creare quando Esty e Yanky non riescono a consumare, ed Esty viene costretta a usare dilatatori – vengono trattati con un’ottica attenta ma mai giudicante.

È molto interessante venire a sapere dalla miniserie il modo in cui questa comunità – realmente esistente a Brooklyn – si relazioni con l’Olocausto a distanza di decenni dalla liberazione di Auschwitz: «per la prima generazione e forse anche per la seconda, questo trauma ha fatto da forza trainante per le regole e le tradizioni della comunità», commenta la Feldman.

La stessa Esther, in un flashback, dice alla ginecologa di dover fare figli a ripetizione per «riportare al mondo» i sei milioni di ebrei uccisi dal nazismo; il viaggio a Berlino suscita particolari apprensioni a Yanky e a Moishe perché credono che in quella città stiano ovunque le anime degli ebrei sterminati durante la Shoah; la nonna con cui Esther è cresciuta è fuggita dall’Ungheria e si è sposata in un campo profughi; lo stesso nome, Satmar, è quello di un villaggio ungherese da cui molti ebrei fuggirono negli anni quaranta. Quella da cui Esty fugge non è una comunità ebraica con radici che si perdono nella notte dei tempi come altre in giro per il mondo, si tratta di una realtà nata dopo la Seconda Guerra Mondiale, con tutto l’oltranzismo e il rispetto esasperato delle tradizioni che può dimostrare chi ha solo recentemente ritrovato la sua identità per colmare una ferita tanto profonda.

La stessa attenzione ai particolari con cui sono stati rappresentati gli chassidisti di Williamsburg si ritrova anche nei piccoli gesti che accompagnano il processo di trasformazione di Esty una volta a Berlino: lei che per la prima volta sceglie i suoi nuovi abiti occidentali dopo essere stata costretta per tutta la sua vita a un rigido codice di vestiario; che nottetempo passeggia libera in un parco di Berlino urlando sotto un ponte dell’eco; che fa il primo bagno in un lago alla fine della prima puntata, in una scena decisamente toccante anche se forse troppo apertamente simbolica. Un valore simbolico lo assume anche il legame che si viene a creare fra Esther e i ragazzi del Conservatorio: si tratta di un gruppo eterogeneo di giovani, di cui solo uno è originario di Berlino: una ragazza è israeliana, un altro è nigeriano ed è fidanzato con un compagno di corso, un’altra studentessa è yemenita. Ognuno ha insomma la sua diversità, ma quando suonano insieme musica da camera, cercando di diventare come suggerito dal loro insegnante un unico corpo, si viene a creare una sorta di correlativo-oggettivo visivo del processo di integrazione di Esther nella multietnica capitale tedesca.

In realtà, tutta la parte berlinese del film è frutto della fantasia delle sceneggiatrici, che hanno ritenuto più opportuno separare il percorso di Esther da quello di Deborah Feldman essendo lei ormai diventata un personaggio pubblico e il carattere fittizio di questa parte del film si fa sentire soprattutto nella sottotrama relativa all’audizione al conservatorio di Esty. Sono invece tratti fedelmente i flashback relativi al passato chassidista, forse l’aspetto più interessante di Unorthodox.

Nella sua narrazione piacevole e scorrevole che sa affrontare temi importanti per i nostri tempi, questa recente produzione di Netflix ha decisamente colto il bersaglio.

Titolo: Unorthodox
Regista: Maria Schrader
Ideatrici: Anna Winger, Alexa Karolinski
Sceneggiatura: Anna Winger, Alexa Karolinski, Daniel Hendler, dall’omonima autobiografia di Deborah Feldman
Attori principali: Shira Haas, Jeff Wilbusch, Amit Rahav, Alex Reid
Fotografia: Wolfgang Thaler
Costumi: Justine Seymour
Produzione: Studio Airlift, Real Film Berlin Gmbh
Distribuzione: Netflix
Numero puntate: 4
Durata episodio: 53-55 minuti
Genere: drammatico, biografico
Uscita: 26 marzo 2020