Tra i classici del cinema italiano che andrebbero salvati dall’oblio, questo film del 1974, diretto da Lina Wertmüller, si distingue per la complessità delle dinamiche sociali e umane in gioco e per un sapiente bilanciamento degli opposti registri del comico e del tragico.

I protagonisti, Gennarino Caturchio (Giancarlo Giannini) e Raffaella Lanzetti (Mariangela Melato), incarnano due stereotipi dell’Italia di quegli anni: lui proletario iscritto al PC, meridionale irascibile con un’idea precisa dell’universo femminile (la donna, per Gennarino, è nata per servire l’uomo, per essere oggetto di piacere e trastullo del lavoratore), lei snob altolocata dall’esilarante R moscia, emancipata ed anticomunista (il compromesso storico per Raffaella corrisponde all’immagine di un confessionale, dentro il quale Stalin in persona assegna le penitenze: “trenta Avemaria e trent’anni di Siberia!”).

Entrambi, l’uno come marinaio, l’altra come vacanziera, navigano a bordo di uno yacht, nel quale persino le assi di legno che separano il ponte dalla sottocoperta sembrano rievocare storiche barriere sociali apparentemente invalicabili.
È l’ennesimo capriccio di Raffaella, che impone a Gennarino di portarla al largo in gommone sul far del tramonto e sfidando le correnti contrarie, a destinare entrambi ad una serie sfortunata di circostanze, che culmina con il naufragio su un “isolotto desertico e selvaticu”.

Qui l’idiosincrasia tra i due esplode, in pochi istanti, in uno spassoso scambio di improperi, tra i quali da segnalare quello che a mio avviso rappresenta l’icona di tutti gli insulti cinematografici, ossia quel “bottana industriale” con cui Gennarino apostrofa la detestata aguzzina, dando finalmente sfogo alla collera per le vessazioni fin lì sopportate e prorompendo, subito dopo, in una risata nella quale si respira la conquista della libertà.
L’isola, infatti, riesce là dove nessuna rivoluzione proletaria ha mai avuto potere: scenario privilegiato di sogni utopici, microcosmo reso inviolabile dal potere occultante del mare, l’isola è l’altrove in cui le macchie delle convenzioni, dei ruoli imposti dalla società, vengono lavate via dalle implacabili leggi della sopravvivenza.

Gennarino, che quelle leggi conosce da sempre, acquista presto coscienza del proprio vantaggio sulla donna e non tarda a trasformare quel vantaggio in vera e propria rivendicazione di superiorità.
In fondo, la violenza verbale e fisica, che egli infligge alla ricca milanese e che scandisce l’iniziazione di questa al suo nuovo ruolo di serva, è una tappa obbligata della rivoluzione che si sta compiendo: memorabile l’inseguimento tra le dune di sabbia, ritmato dagli schiaffi sonoramente vibrati all’indirizzo della povera Melato, ciascuno a vendicare un’ingiustizia sociale (“questo è per la crisi economica…questo è per gli ospedali, che un poveraccio non ci riesce a entrare mai…questo è per l’aumento della benzina”).

Raffaella subisce suo malgrado tale brutalità, opponendovi sempre una certa razionale e orgogliosa resistenza, salvo poi cedere al suo fascino primordiale (il che attirò sul film le aspre critiche delle femministe dell’epoca): lo stesso uomo che ha ucciso, umiliandola, una parte di lei, conquista il suo rispetto, la sua devozione, il suo amore, e si innamora di lei a sua volta.

Il conflitto diviene compromesso e il compromesso trova la sua apoteosi nell’amplesso. Non si ha l’impressione, tuttavia, di assistere ad un incoerente colpo di scena, volto a compiacere il voyeurismo del pubblico italiano, certamente già appagato dalle commedie sexy che imperversavano in quegli anni. Il film è infatti giocato sulla cifra del paradosso, del ribaltamento, e soltanto il ritorno al mondo, alla Storia sarà in grado di mettere alla prova la profondità del cambiamento.

Il merito della regista e dei due straordinari attori consiste nella capacità di avere salvato i personaggi dalla trappola (allettante per un film di genere comico) della macchietta, riuscendo a dar loro, al contrario, pieno spessore. Del resto, Travolti da un insolito destino… non è una commedia tout cour: è qualcosa di più.
Nel 1975 il film si è guadagnato un David di Donatello per le musiche di Piero Piccioni.