the-hurt-locker-locandinaThe Hurt Locker è probabilmente il miglior film a sfondo bellico degli ultimi anni. La chiave della sua riuscita risiede, però, non tanto nel suo contesto (la guerra in Iraq), ma piuttosto nell’umanità dei personaggi presentati. Non è un film sulla guerra, ma un film su degli esseri umani in guerra: differenza, questa, che se ben sfruttata può far fare al lungometraggio il salto di qualità, come confermano degli esempi eccellenti, da Coppola a Kubrick.

In Iraq viene mandato un nuovo artificiere in un equipe specializzata nel disinnesco bombe, il Sergente Maggiore William James (un bravissimo Jeremy Renner), il quale, però, a differenza del suo predecessore (morto in missione), ha un approccio molto più radicale, incauto e “spontaneo” nei confronti della sua professione: difatti essa lo attrae in maniera viscerale ed ogni vittoria del soldato su un ordigno è documentata da cimeli come spolette, timer, veri e propri trofei di guerra, che egli tiene in una cassa sotto il letto.

La convivenza fra l’impavido James e la sua squadra sarà dura per tutti i quaranta giorni rimasti nel programma di missione. Un periodo che però non sembrerà giungere mai a termine, percorso ogni giorno a braccetto con la morte da dei personaggi sempre alle prese con i loro tantissimi pensieri.

La sceneggiatura del giornalista Mark Boal e la grandissima abilità registica della Bigelow permettono il perfetto sviluppo dell’opera, di una lunghezza non irrisoria (130 min. circa), ma priva di tempi morti. Ogni personaggio è disegnato e, attenzione, ripreso in maniera che tutte le possibili sfumature psicologiche vengano alla luce. Ciò comporta che il film sia completo in sé ed espleti il suo messaggio da solo.

Ogni aspetto è trattato col giusto taglio ed esaurisce la sua ragion d’essere nel tempo stesso in cui viene mostrato.

Infatti, è evidente che uno degli argomenti fulcro del film è il tempo e la relatività del suo scorrere: c’è il tempo della storia, scandito da un timer dei giorni rimasti alla fine della missione, ed è altro rispetto al tempo delle varie sequenze, il quale sembra passare a volte più velocemente, altre volte più lentamente, disteso o contratto dalle urla, dall’adrenalina, dal nervosismo e dalle paure.

The Hurt Locker è un incubo ad orologeria, che potrebbe scoppiare in ogni momento in cui lo spettatore senta di aver raggiunto il limite: i movimenti di camera sono di proposito spesso insicuri, gli ansimi veloci ed i respiri lenti e pesanti, il nervosismo mostrato nella sua interezza sono aspetti legati storicamente a films con un alto tasso di dinamismo al loro interno, mentre in questa produzione tutto è concentrato nella precisa ed estenuante azione del disinnesco.

Ogni elemento per un lungometraggio d’azione bellica c’è ed è saggiamente distribuito, ma la scatola utilizzata per impacchettare l’opera è, volutamente, troppo piccola: non inadatta, ma inusuale e per contenere l’insieme si deve sformare. Così, alla stessa maniera, sformati appaiono i personaggi, macchie umane non ben definibili con lo svilupparsi del film.

L’altro grande tema del lungometraggio è, quindi, l’umanità, intesa come quell’insieme di atteggiamenti che ci “rendono umani“. Il film non dice quali siano, ma dimostra, piuttosto, quanto questo sia un argomento sfuggente e vano a trattarsi.

A volte, durante la visione, viene da credere che la guerra generi dei mostri, che aumenti il cinismo, la freddezza e la mancanza di rispetto nelle persone in maniera esponenziale. Invece la verità che salta fuori dall’opera è che non si può giudicare qualcosa che non appartiene alla nostra realtà con i nostri principi.

Il personaggio di James, beffardo e sprezzante del pericolo, spesso ci appare in luce negativa, complicato e caotico, assolutamente fuori controllo ed inadatto, nonostante le sue capacità, alla disciplina della guerra, così com’è intesa nel senso comune.

Ma il senso comune porta spesso fuori strada e James si rivela, anzi, un tutt’uno con l’esperienza bellica e più questa cosa sembra impossibile ai nostri occhi (e a quelli dei suoi compagni), più siamo noi ad essere in torto. Inoltre non ci riesce di affermare che il nostro protagonista sia un “mostro” in tutto e per tutto, perché ha anche lui i suoi momenti di “umanità” o, perlomeno, di quello stato d’animo che noi siamo soliti definire tale. Questa è solo la prova (attoriale) vivente della relatività d’ogni cosa, prima di tutte dell’uomo.

Non s’intenda qui un’apologia di ogni comportamento, ma si tratta solo di un invito del film a ricordare che un essere umano è sempre tale, anche quando ha a che fare con l’abisso.

Un’opera davvero notevole quella della Bigelow, ben girata (almeno due momenti di clamoroso spessore: il primo disinnesco di James e l’episodio del bimbo-bomba), ben interpretata, chiara nonostante le molte sfumature psicologiche offerte, che non interferiscono con la “digeribilità” dell’insieme, ma la esaltano.

Stranamente è andato male al botteghino, testimonianza della superficialità del grande pubblico, ma è uscito di recente in home video e il consiglio è di recuperarlo quanto prima.