L’albergo dell’orrore

A trentasette anni dall’uscita, il film di Kubrick non perso nulla del suo valore e suona come un’ulteriore conferma del talento cinematografico del regista.

L’aspirante scrittore Jack Torrance, per concentrarsi sulla stesura del suo primo romanzo, accetta l’incarico di guardiano dell’Overlook Hotel, chiuso durante l’inverno, e vi si trasferisce insieme alla moglie e al figlioletto. Poco dopo il suo arrivo, però, l’uomo è vittima di spaventose allucinazioni che lo rendono collerico ed irascibile coi suoi familiari. Anche il figlio Danny viene suggestionato dall’atmosfera sinistra di quel luogo ma, grazie alle sue facoltà medianiche (lo shining eponimo, ovvero una sorta di percezione extrasensoriale), comprende il pericolo che il padre, ormai suggestionato dalle visioni di morte e di violenza che lo tormentano, costituisce per lui e per la madre Wendy e i due, anche se privi di contatti con l’esterno a causa dalla copiosa nevicata che ha isolato l’albergo, cercano di salvarsi dalla follia omicida di Jack.

Il film di Kubrick è giustamente celebre per una molteplicità di ragioni e tale fama si rivela quantomai ben riposta in un’epoca di crisi del genere che dura ormai da un quarto di secolo. Senza voler enumerare tutti i pregi che l’hanno reso non soltanto un classico del genere, ma anche una delle opere più riuscite del regista e della storia del cinema nel suo complesso, ci limiteremo qui ad evidenziare due momenti del film dove il genio cinematografico di Kubrick e la sua capacità di valersi delle allora recenti invenzioni tecniche per veicolare il contenuto di una sequenza e dell’opera nel suo complesso risultano più chiare e nette. Durante le corse in triciclo del piccolo Danny lungo i corridoi dell’albergo deserto, un movimento di macchina in avanti realizzato grazie alla steadicam (ovvero un’intelaiatura dotata di un sistema di ammortizzatori, indossata direttamente dall’operatore, sulla quale viene fissata un’apposita macchina da presa, che consente di mantenere la stabilità dell’immagine indipendentemente dai movimenti dell’operatore) segue il percorso del bambino. Il movimento di macchina parrebbe subordinato a quello del triciclo, ma in realtà, ad osservare attentamente, ci si accorge di come l’avanzare della macchina da presa sia più lento di quello del bambino. Il movimento profilmico (quello di Danny sul triciclo) determina così solo in parte quello filmico: la direzione è la medesima, ma la velocità è differente. Inoltre, quando il bambino, giunto alla fine del corridoio, svolta a destra ed esce di campo, il movimento profilmico viene azzerato, in quanto non v’è più più nulla a muoversi nello spazio rappresentato dall’inquadratura. Il regista fa continuare il movimento di macchina in avanti ancora per qualche secondo, lungo uno spazio ormai vuoto ed immobile: il movimento della macchina da presa diviene così completamente libero e finisce col rappresentare apertamente uno sguardo che dev’essere necessariamente quello dell’istanza narrante. Nel contesto del film, che racconta una storia fantastica, legata alla tradizione dell’orrore, questo sguardo in movimento assume tuttavia anche un’altra valenza: lascia nello spettatore l’impressione che tale sguardo abbia una sua indipendenza e autonomia, una vita propria, e che sia in certo qual modo lo sguardo di una forza malefica superiore che osserva il piccolo Danny; uno sguardo che materializza quelle oscure e minacciose presenze che abitano il luogo dov’è ambientata la vicenda e si manifestano attraverso immagini violente e spaventose. Questo movimento di macchina libero genera un momento di tensione culminante nell’immediatamente successivo incontro fra Danny e i fantasmi delle due gemelle che in quello stesso albergo erano state tempo prima massacrate. L’altro esempio vede in scena il protagonista Jack Torrance, interpretato come noto da Jack Nicholson, che, come abbiamo anticipato, ha accettato l’incarico di guardiano invernale dell’Overlook Hotel in cerca d’isolamento e di pace per attendere alla stesura del suo romanzo d’esordio; tale progetto sarà tuttavia destinato al fallimento. Nel piano in questione, i segni premonitori di tale scacco sono affidati alla dialettica audiovisiva fra campo e fuori campo. L’inquadratura si apre con un piano ravvicinato della silenziosa macchina da scrivere di Jack abbandonata su d’un tavolo. Mentre lo sguardo dell’istanza narrante vi si sofferma per alcuni secondi, si ode provenire dal fuori campo un rumore simile a quello di qualcosa che ad intervalli regolari batte contro qualcos’altro (proprio come i tasti di una macchina da scrivere mentre viene utilizzata). Poco alla volta la macchina la presa arretra, mostrando Jack lanciare contro al muro una palla da baseball. La tensione del piano, il dramma dell’uomo che vorrebbe esser uno scrittore ma n’è incapace, viene interamente e compiutamente espresso dal contrasto fra l’immagine e il suono; fra una macchina da scrivere purtroppo silenziosa, perché chi dovrebbe adoperarla è privo dell’ispirazione, e il rumore prodotto da una palla da baseball, inizialmente confinata nel fuori  campo, che batte contro ad un muro. Questi due esempi ci paiono ampiamente sufficienti a dimostrare la perfetta conoscenza e padronanza che il regista possedeva degli elementi del linguaggio cinematografico e della sua capacità di utilizzarli al fine di convogliare il senso contenuto nelle singole inquadrature e quindi, attraverso di esse, nell’opera stessa.

Titolo originale: The Shining
Regia: Stanley Kubrick
Soggetto e sceneggiatura: Stanley Kubrick e Diane Johnson, dal romanzo omonimo di Stephen King
Direttore della fotografia: John Alcott
Montaggio: Ray Lovejoy
Musica: Wendy Carlos, Rachel Elkind
Scenografia: Roy Walker
Costumi: Milena Canonero
Interpreti: Jack Nicholson, Shelley Duvall, Danny Lloyd, Scatman Crothers, Barry Nelson, Philip Stone, Joe Turkel, Anne Jackson, Lia Beldam
Prodotto da Stanley Kubrick
Genere: horror
Durata: 125 minuti
Origine: Gran Bretagna/Stati Uniti
Anno: 1980