Malick è Malick!

Nell’ambito del quinto appuntamento della rassegna di cinema, canzoni e parole Operazione Lapsus! dedicato al cantautore americano Bruce Springsteen, giovedì 5 maggio, l’Associazione Museo Nazionale del Cinema di Torino ha presentato al Cinema Romano il film documentario Rosy – Fingered Dawn. Un film su Terrence Malick (2002).

Per omaggiare un artista che con i suoi pezzi ha raccontato, in modo poetico e provocatorio (si pensi a Born in the USA, Dancing in the Dark e Streets of Philadelphia) 35 anni di vita della società statunitense, gli organizzatori della nota rassegna sabauda sono infatti transitati sui sentieri percorsi da uno dei più enigmatici e indefinibili maestri dell’universo hollywoodiano.

Un cineasta colto, cosciente, caratterizzato da uno stile al contempo lucido e visionario, che si è sempre mostrato refrattario rispetto a una possibile condivisione della cinica e oppressiva ideologia della “mecca del cinema”; tanto che tra La rabbia giovane (Badlands, 1973) suo lungometraggio d’esordio e le sue ultime fatiche L’albero della vita (The tree of life, 2011) e The Burial (potente dramma sentimentale la cui uscita è prevista per la fine del 2012), Malick ha girato solamente le pellicole I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978), La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998) e Il nuovo mondo (The New World, 2005). Realizzato nel 2002 dai cineasti romani Gerardo Panichi, Carlo Hintermann, Daniele Villa e Luciano Barcaroli e presentato con successo nella sezione “Nuovi Territori” alla Mostra del cinema di Venezia, RosyFingered Dawn è incentrato sulle riflessioni e sulle testimonianze di coloro che hanno lavorato fianco a fianco con Malick nei suoi primi tre film: lo scenografo Jack Fisk, il produttore Edward R. Pressman, il montatore Bill Weber, i direttori della fotografia Haskell Wexler e Stevan Larner, il compositore Ennio Morricone, nonché, tra gli altri, gli attori Martin Sheen e Sissy Spacek protagonisti de La rabbia giovane, Sam Shepard (I giorni del cielo), Jim Caviezel, Sean Penn, Adrien Brody, John Turturro, Elias Koteas, Ben Chaplin e John Savage (tutti ne La sottile linea rossa).

In un’intervista contenuta nel documentario, Martin Sheen afferma a proposito del regista americano “Terry non si sente a suo agio se lo riconoscono per quello che fa. Si sente a suo agio se lo riconoscono per quello che è!”, dato che il mestiere del cineasta “è solo una piccola parte della sua personalità”. E in effetti, questo autore nato a Waco (Texas) il 30 novembre del 1943, che dopo i primi due film affermò che si sarebbe preso una pausa di riflessione (“ad essere sempre sotto osservazione si commettono passi falsi…”). giunse al cinema in modo abbastanza casuale. Impegnato a inseguire il petrolio tra il Texas e l’Oklahoma insieme al padre geologo di una nota oil-company, alla madre casalinga e agli altri due fratelli, Malick maturò col tempo una predisposizione nei confronti di quelle discipline capaci di disvelare i confini dell’interiorità umana – come l’arte, la letteratura e la filosofia – che lo condusse, nel giro di pochi anni, ad Harvard – dove si laureò in filosofia -, in Germania – dove incontrò il settantaseienne Heidegger del quale tradusse in seguito L’essenza del fondamento –, a Oxford – dove non completò la tesi su Kierkegaard, Heidegger e Wittgenstein a causa di un disaccordo col tutor – e. infine. a calare le conoscenze acquisite nelle sue diverse attività di operaio, agricoltore, giornalista (“Newsweek”, “The New Yorker” e “Life”) e docente di filosofia al celebre Massachusetts Institute of Technology. Soprattutto, il nostro iniziò a materializzare figurativamente la matrice filosofica della sua formazione culturale nel 1969; allorquando il suo cortometraggio Lanton Mills, in cui si narravano due moderni cow-boy intenzionati a rapinare una banca, dopo aver riscosso un certo successo, venne infine ammesso al prestigioso American Film Institute di Los Angeles.

 

Era difatti già presente nella pellicola di Malick quella poetica che sarebbe stata palpabile in ogni risvolto della sua opera. Ovverosia, un approccio nei confronti della sua professione (e più in generale della vita) segnato da una totale assenza di invadenza, di egocentrismo; quasi una scelta di invisibilità che alludeva appunto alla heideggeriana consapevolezza che solo acquisendo coscienza della propria finitezza è possibile avvicinarsi senza ossessioni e angosce alle decisioni che dobbiamo prendere ogni giorno (in tal senso, in una delle rare interviste rilasciate, lo stesso cineasta ebbe a dire che quella cinematografica rappresentò sempre per lui “una carriera meno improbabile di un’altra”). Simbolicamente, l’aneddoto che ci narra ancora Sheen in Rosy – a proposito di quella volta in cui Malick si diede letteralmente alla fuga per evitare di rispondere ai quesiti che un passante invadente si accingeva a rivolgergli circa il suo lavoro – materializza in modo perfetto la natura, la sensibilità di un artista che, non trovando altri modi per opporsi a quella omologante cultura della visibilità massmediatica e a quell’invasiva esistenza commerciale che negli anni settanta stavano rinchiudendo l’America in una prigione spacciata per libertà, decise dopo I giorni del cielo di trasferirsi in Europa e di far perdere le proprie tracce per un ventennio.

La sua opera, troppo raffinata per fornire precise coordinate socio-antropologiche o politiche, ma comunque capace di armonizzare con gusto la voglia di sognare e la disillusione, la passione e il nichilismo, è stata la diretta emanazione di una personalità complessa (pur essendo un devoto protestante di confessione episcopale, Malick si è sposato tre volte con due divorzi), segnata da profondi travagli (Larry, uno dei due fratelli del regista, si suicidò quando quest’ultimo aveva 25 anni), nonché di un’insaziabile voglia di sperimentare ogni possibilità del noto medium. A testimonianza di questa inquietudine, non molti sanno che il nostro, grande appassionato dei film di genere, realizzò la sceneggiatura del western di Stuart Rosenberg Per una manciata di soldi (Pocket Money, 1972) e collaborò alla stesura del soggetto del crudo poliziesco di Don Siegel Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry, 1971).

Disse di sé che non sarebbe mai diventato un buon docente di filosofia (“non avevo quell’ascendente che ogni buon insegnante dovrebbe avere sugli studenti”), ma da colui che ci ha donato uno dei migliori film sulla gioventù americana (il teso, violento, profondamente lucido e appassionato La rabbia giovane), una sorprendente rievocazione della società contadina americana dei primi del Novecento ricca di sfumature psicologiche e soprattutto di inedite illuminazioni formali (I giorni del cielo, di cui, come disse Martin Scorsese “ogni fotogramma andrebbe ingrandito e appeso alla parete”) e – dopo molti anni di silenzio – una pellicola che incarnava, al contempo, un inno alla pace e una delle più grandi messinscene della paura della morte mai viste al cinema (La sottile linea rossa, il racconto della vita di trincea di un gruppo di soldati americani sull’isola di Guadalcanal nel 1942), noi abbiamo appreso davvero molto. Soprattutto che quando si tratta di veri autori della settima arte, coloro che sanno nutrire il racconto filmico di sentimenti universali, mai l’artista smette per un istante di essere anche filosofo e poeta. E viceversa.

Titolo: Rosy – Fingered Dawn. Un film su Terrence Malick
Registi: Luciano Barcarola, Carlo Hintermann, Gerardo Panichi, Daniele Villa
Cast: Penelope Allen, Sergey Bodrov, James Caviezel, Ben Chaplin, Bob Codyk, Jack Fisk, Ken Hilton, Elias Koteas, Stevan Larner, Ann Lopkoff, Terrence Malick, Ennio Morricone, Arthur Penn, Sean Penn, Edward R. Pressman, John Savane, Martin Sheen, Sam Shepard, Sissy Spacek, George Aliceson Tipton, John Turturro, Billy Weber, Haskell Wexler
Genere: documentario
Durata: 90’
Casa di produzione: Citrullo International, Campinella Production, Misami Film
Fotografia: Carlo Hintermann
Montaggio: Gianni Russo
Musiche: Mario Salvucci e Edoardo Cianfanelli
Scenografia: Gerardo Pipazkia
Costumi: Carlos J. Kulaka