Recensire un cult come (o come doveva essere) un sequel di Superman è qualcosa di difficile e a tratti sconveniente.

  • Scheda Tecnica

Perché bisogna conoscere tutti i precedenti e avere come minimo un’infarinatura di fumetti per comprendere se lo spirito del supereroe e dei personaggi satelliti sono stati ben resi e intimamente rispettati. Bisogna fare i conti con i fan, storici e dell’ultima ora, che sono sempre abbastanza severi quando si rimaneggia il “loro” supereroe di riferimento.
Ecco, non ho una grande cultura fumettistica e a malapena ricordo i film con Christopher Reeve, ma ho conosciuto a fondo gli amanti dei fumetti che eleggevano Superman a capo supremo di tutte le tutine (Uomo Ragno, Batman, Flash, etc.), e sapevano tessere le lodi del più grande fra i grandi, pestando i tasti giusti.

Il suo doversi travestire da “noi” anziché da altro, il suo essere in assoluto il più forte e indistruttibile, il più veloce come il più roccioso, e il suo dissimulare potenza magnifica sotto le sembianze del timido sfigatello occhialuto, quello che in America chiamerebbero il nerd dei giornalisti: Clark Kent, l’alter ego più “alter” che si sia mai visto, unico “luogo” al mondo in cui nessuno avrebbe cercato Superman, e in cui l’identità di Superman era più al sicuro.
Non conosco i fumetti ma so che un minimo di doppio fondo etico lo contengono sempre, e se i recenti Spiderman e Batman Begins hanno assolto il compito dell’indagine interiore dei dissidi di un super uomo, Superman (che più di tutti avrebbe richiesto un approccio simile) lascia molto a desiderare in tal senso, e delude profondamente chi non ha fame di play station o simili.
L’interpretazione di Brandon Routh mira ad essere una copia carbone di quella del suo predecessore (a cui assomiglia in maniera imabarazzante, nonostante le lentine colorate posticce), e si riduce a macchietta coi capelli impomatati, che delega (relega) il passaggio da Superman a Clark Kent al solo indossare gli occhialoni, (ma Kent è più di un paio di lenti; è un attitudine, è un aurea di goffaggine che nemmeno somiglia alla massiccia sicurezza di Superman), e tutto il resto pare solo invocare il mondo di Metropolis> in cui Superman dissemina grandi imprese.

Lois Lane è una Kate Bosworth incolore di cui avremmo fatto tutti volentieri a meno, poco espressiva e senza significato, ci fa rimpiangere l’ironia e lo scomposto arrivismo di Margot Kidder nei tre capitoli della saga sceneggiata da Mario Puzo, e interroga circa i casting hollywoodiani (ma non lo pensa più nessuno che per essere scritturati bisogna avere un pizzichino di talento?).
Il film, costato circa 270.000.000 dollari, è stato realizzato con una particolare tecnica di ripresa digitale (Genesisi Camera) che consente, tra le altre cose, la proiezione in sale IMAX 3D, dove è a tratti possibile godersi le peripezie aeree del Nostro in tre dimensioni, indossando i classici occhialetti.

Questo potrebbe essere il miglior merito del film (la sua ragione ultima e prima), che ha in più punti il sapore del videogioco in cui si sperimentano metodologie di visione innovative (la sequenza del salavtaggio dell’aereo, fatto “riposare” sull’erba dello stadio, è da mozzare il fiato), ma possiamo dichiarare assente il cuore, l’anima e il sangue del supereroe, surgelato entro inquadrature patinate che ne ammortizzando il vigore e ne accorciano l’impatto emotivo.

Non bastano le frasi sospese d’amore a Lois per rendere dunque la profondità del conflitto che ogni eroe è chiamato a vivere, costretto nella dimensione del sacrificio che lo separa dalla normalità di un sentimento e di un amore. I dialoghi sono flosci, poco sentiti e pensati quel minimo sindacale utile a riempire i buchi fra una “volata” e l’altra. E come ci spiega Samuel L. Jackson nel controverso The Unbreakable di Shyamalan, un super eroe è molto, molto di più.
Molto più di quanto Singer ci abbia voluto regalare, stringendo la cinghia in termini di suggestioni e profondità.
Buona (ma quando non è cosi’?) la prova dell’unico, vero scompaginato in un universo di compostezza (tutti sono ben compunti al loro posto): Kevin Spacey vibra nei panni dello schizzato Lex Luthor, a tratti algido, a tratti isterico. Incisivo, ma sprecato in un film dove a nessuno sembra importare di recitare.

Siamo qui al servizio degli effetti speciali: la trama, gli attori, lo stesso Superman sul cui viso di cera spesso si indugia, sembra un pretesto per esibire le più avanzate tecnologie.
Questa è la morte del cinema. Oltre che di un mito.

Superman Returns: Insufficiente per chi ama i fumetti.
La Frase: “Diventerà forte come suo padre.”Kate Bosworth, Superman Returns, 2006
Voto: 4,5