Lo chiamano “ il miglior regista vivente”, mentre qualche bestemmiatore, blasfemo e incosciente, osa definirlo solo molto, molto sopravvalutato (almeno negli ultimi tempi).

Non c’è dubbio che negli ultimi 10 anni Scorsese si sia sbracciato per correrre dietro al film perfetto, sognandolo, agognandolo, progettandolo senza mai realizzarlo davvero, dando vita ad un balletto di eterni “coiti interrotti”, il cui capostipite è il farraginoso Gangs of N.Y, passando per il “meno peggio”  The Aviator, deviando con l’infelice Shine A Light, e spiaggiandosi  infine sull’isola delle agnizioni, quella Shutter Island che, pur presentandosi come opera minore, non può essere meno passibile di osservazioni critiche (nel senso di contestabili).

La formula è commerciale, semplice e arcinota: un detective (anzi due, con un Mark Ruffalo  comprimario che Hollywood non spoglia mai della divisa) , un’ isola che ospita un manicomio ambiguo e ai limiti del possibile, una paziente che scompare misteriosamente, un pizzico di revival nazista (ci sta sempre bene),  che cavalca l’onda delle similitudini e delle suggestioni più immediate, che non impreziosiscono il  thriller, anzi lo soffocano col cuscino della prevedibilità, nemica giurata del genere giallo, che si sgonfia come un soufflé sbagliato fin dai primi accostamenti: isola manicomio/ campo di concentramento. Vi viene forse in mente qualcosa di più banalmente ovvio e meno sperimentale? Ma andiamo con ordine.

Il viaggio (metafora e simbolo) del protagonista, l’agente federale Teddy Daniels (Di Caprio), si rivela fin da subito andare oltre la semplice indagine relativa alla sparizione della criminale Rachel Salando. Daniels è li’ per una ragione più profonda e più ampia,che travalica il “lavoro” e si espande,  fagocitando l’isola e le sue dubbie attività, fuoco dell’attenzione di Daniels insieme a qualcos’altro di più intimo. Daniels da’ la caccia al piromane psicopatico che ha appiccato l’incendio in cui è morta sua moglie (Michelle Williams). State certi che lo troverà.

Il viaggio di Daniels è un incubo in salita, costruito secondo lo schema dell’epifanica rivelazione/agnizione finale, che si disvela e si squaderna con regolare puntualità, intervallando onirici stati allucinatori dal retrogusto premonitore e spiritico, a episodi di una realtà sempre più confusa, sempre più problematica, eppure sempre più chiara nel confermare la sua ambivalenza e il suo doppio fondo.

Chi è la guardia e chi il ladro? In quale fantasia si ambienta la narrazione? Siamo nella mente di un malato, invischiati nei suoi “meccanismi di difesa e di negazione”, oppure ad essere malato è il mondo dell’ospedalizzazione, che dice di voler curare e guarire la patologia, attraverso la tortura filonazista?

Insomma, Shutter Island è un film articolato sui chiaroscuri della verosimiglianza, che gioca (o vorrebbe farlo) con l’attenzione dello spettatore (in stile Sixth Sense, per capirci),  mettendo in scena i pezzi di un puzzle, che infine si ricongiungono troppo lentamente, disinnescando l’efficacia di un finale talmente “allungato”, spiegato e ipervisualizzato, da far desiderare l’ingresso di un “colpo di scena ulteriore”, che ravvivi una conclusione degna di tale nome. L’acme non si raggiunge, la tensione non elettrizza e si sbriglia in un resoconto degli eventi che non ha più nulla di emotivo o emozionate, ma si ricolloca sul piano della didascalia didattica, della serie: “non ti faccio vivere, ti spiego”. Il soufflé  prontamente si sgonfia, il coito interrotto è assicurato.

Scorsese si iperverbalizza  imbolsendo l’azione, rallentandola.  Strangola il film sottraendolo ai fasti rassicuranti del genere (thriller? Psicothriller? Noir? Giallo?) di cui però conserva ogni possibile errore, imputabile (sicuramente) all’incerta regia, visto che la storia sulla carta vede la firma in calce del talentuoso novellista Dennis Lehane, autore fra gli altri, dei notevoli Mystic River e Gone Baby Gone, opere baciate da  fortunati adattamenti cinematografici, più fedeli ed efficaci.

Persino la fotografia patinata nei toni del grigio morbido, sconfessa l’ambientazione orrorifica e crea ulteriore distanza tra il mondo malato di Daniels e la nostra (im)possibile partecipazione.

I contributi di recitazione valgono però il prezzo del biglietto, e Leonardo Di Caprio si conferma (se ce ne fosse ancora bisogno) un attore generoso e intensissimo, che contrariamente al suo mentore, non sbaglia un ruolo né un’interpretazione.

E’ sempre un piacere rivedere poi “vecchi leoni” come Max Von Sydow e Ben Kingsley, capaci di dare spessore e credibilità a qualsiasi ruolo, anche se in questo caso specifico l’espressività contenuta di Kingsley appare “un po’ troppo contenuta”, finanche sfiorare l’immobilismo di un personaggio incolore.
Una menzione speciale per la “ricomparsa” della bella Michelle Williams, fantasma d’eccezione a cui speriamo vengano affidati ruoli di sempre maggior rilievo, convinti come siamo che la vera “rivelazione” di Dawson’s Creek (se proprio doveva essercene una) era lei, e non la più famosa Katie Holmes – Cruise.

Shutter Island: Cosa manca a Scorsese per mettere a punto un film che si dica compiuto?

Voto: 5-

REGIA: Martin Scorsese
SCENEGGIATURA: Laeta Kalogridis, Steven Knight
ATTORI: Leonardo Di Caprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Emily Mortimer, Michelle Williams, Max von Sydow,
FOTOGRAFIA: Robert Richardson
MONTAGGIO: Thelma Schoonmaker
PRODUZIONE: Phoenix Pictures, Sikelia Productions, Appian Way, Paramount Pictures
DISTRIBUZIONE: Medusa
PAESE: USA 2009
GENERE: Thriller
DURATA: 148 Min