Nuovo incontro al Cinema dei Piccoli, che ospita la rassegna curata dalla Cineteca Nazionale, su Pier Paolo Pasolini.

In pieno clima sessantottino, Pasolini scrive e dirige un film come Porcile, in cui il realismo della critica al neo-capitalismo post-nazista tedesco, si unisce dialetticamente all’acuta riflessione su un passato che “non passa mai”, su una dimensione solo apparentemente metafisica e confinata nell’oblio della storia, eppure così vicina alla nostra quotidianità.

Il film si struttura su un doppio binario narrativo che, intrecciandosi, permette al film di arricchirsi di spunti e riflessioni radicali, spesso talmente pungenti da trasfigurarsi in una sorta di lectio (non magistralis) sulla costellazione vitale del presente e sulle croniche contraddizioni di una società, come quella capitalistico-borghese, che non passano mai di moda né perdono la loro cinica e brutale attualità.

I due episodi, quello del giovane condottiero cinquecentesco sperduto nelle vallate dell’Etna – cannibale che, venuto a contatto con una banda di stupratori e ladri, finisce incaprettato dall’ordine costituito – e le grottesche vicende della famiglia Klotz di Godensberg – alle prese con la misteriosa zoofilia del primogenito Julian, l’inquietante e ingenuo ribellismo della diciassettenne Ida che lo ama senza però essere ricambiata e l’arrivismo ipocrita del concorrente Herdhitze – tendono a entrare, come mai prima d’allora, negli interstizi del concetto stesso di potere, di ricattabilità, di uso distorto della propria influenza per salvare il salvabile in una realtà ormai irrimediabilmente perduta, sacrificando qualsiasi dignità personale e affettiva per il buon nome degli affari e della reputazione. In questa dimensione, per dirla con Marcuse di alienante alienazione, i tempi di Grotz e Brecht non sono lontani, anzi, sono sempre più attuali.

Precisamente è proprio questa ricerca disperata di un’astratta quanto indefinibile normalità, di un’impossibile affettività familiare, in una villa satura di silenzio, in cui ogni mobile, ogni ambiente, ogni console roccocò, evoca fantasmi e orrori mai sopiti ma eternamente presenti (evocando in qualche modo tutta una precisa tradizione nordica, a cominciare da Bergman), che rappresenta a pieno la crisi verticale di un modello di sviluppo (che lo stesso Pasolini distingue bene dal progresso) e dei suoi pingui agenti, di una borghesia malata e corrotta più dal suo ruolo storico in quanto classe dominante, che dal suo effettivo controllo politico. Qui l’identificarsi zoofilo di Julian nel maiale – e con lui la classe che, suo malgrado, incarna e testimonia – si confonde con la famosa tesi di Lenin sulla putrescenza cronica e incontrovertibile, nell’era dell’Imperialismo, della società borghese nel suo complesso, avvitandosi in una spirale esiziale da cui solo la rivoluzione potrà emanciparla. Un tema carissimo a gran parte dell’Intellighenzia dell’epoca, convinta della necessità – attraverso il cinema – di contribuire, da una parte, alla decostruzione e, dall’altra, alla riqualificazione “artistica” di una società ormai sull’orlo dell’abisso, in cui “l’umanità si riconosce nella sua stessa esistenza alienata”, come Marco Ferreri farà dire a uno dei suoi personaggi di Dilliger è morto del 1969.

A essere messa in scena non è solo la critica sociale a una classe che non è più in grado di controllare e gestire gli effetti deleteri della sua sete di potere e denaro (come surrogati di un’evidente incapacità di vivere il presente per il presente, essendo sempre proiettata in un futuro eternamente passato e in un passato infantilmente presente). Trova “posto” anche uno scavare senza pietà nella decadenza privata, negli incubi e manie personali, nell’orrore intimo di una condizione degradante e asfissiante, da cui paradossalmente, la stessa classe dominante (Julian e Ida in testa) sente di dover uscire o comunque farci i conti. Una borghesia dunque schiava dei suoi angusti e grotteschi limiti, della sua ossessiva ansia di libertà che cozza contro le ataviche paure di chi si appresta alla propria dipartita (e qui tornano in azione i due magnati Klotz e Herdhitze, che preferiscono una fusione dei propri gruppi allo scandalo reciproco), conscia, anche se non siamo più negli anni trenta e la Germania del boom non è più quella di Hitler, di chi è il suo nemico e di chi la seppellirà nel museo della storia.

A un’unità borghese fondata sul cinico interesse e sulla reciproca mutualità nel vizio e nella corruzione (che divengono veri e propri collanti sociali), non corrisponde un’altrettanta unità proletaria; lo stesso Pasolini ne denuncia il ritardo storico, nella descrizione dei solerti contadini di Godensberg, corsi ad avvisare il padrone della prematura scomparsa di Julian, venendo indirettamente in aiuto dell’alleanza, resa ormai pubblica e festeggiata, tra i due magnati. Un’altra strumentalizzazione è andata a buon fine.

Al proletariato, spettatore impotente, se non cooptato dalle varie frazioni borghesi, fa eco l’esemplare descrizione, che a tratti assume i veri e propri connotati di una tragedia greca (ricorda per atmosfere e ricerca Sotto il segno dello scorpione dei Taviani sempre del 1969), della punizione senz’appello del disobbediente, dell’uomo che “uccide il padre, mangia carne umana e trema di gioia”, che – solitario in una natura ostile – cerca di sopravvivere al di là della legge e del codice etico della società, e – in quanto trasgressore e ribelle – al linguaggio omologante della comunità, pur essendo ormai condannato a morte.

Apparentemente i due episodi, collocati in fasi storiche e condizioni sociali ben diverse, sembrano non avere nulla in comune; in realtà, testimoniano la stessa brutalità, la stessa totale assenza di umanità, di vero e autentico eros vitale, di energia positiva, di utopia progressiva, la necessità impellente di esorbitare da una quotidianità ormai insopportabile e invivibile, in una perenne stagnazione vischiosa in cui tutto cade per tornate a galla più lurido di prima. Porcile dunque, conduce Pasolini dalla lirica sopravvivenza delle borgate, da una cruda ma vitale presenza sottoproletaria, alla certificazione di un benessere falso e ipocrita, di un potere, basato sul ricatto e sulla corruzione del più piccolo impulso umano, sempre più vuoto ed impalpabile, che tende all’identificazione, alla rassegnazione e all’assuefazione.

Titolo: Porcile
Regista: Pier Paolo Pasolini
Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini
Attori principali: Pierre Clementi: 1° cannibale, Franco Citti: 2° cannibale, Luigi Barbini: il soldato, Ninetto Davoli: Maracchione, il testimone, Sergio Elia: un domestico (primo episodio); Jean Pierre Léaud: Julian, Alberto Lionello: Klotz, il padre, Margherita Lozano: Madame Klotz, la madre, Anne Wiazemsky: Ida, Ugo Tognazzi: Herdhitze, Marco Ferreri: Hans Gunther (secondo episodio)
Genere: Drammatico
Fotografia: Armando Nannuzzi (primo episodio), Tonino Delli Colli, Giuseppe Ruzzolini (secondo episodio)
Costumi: Danilo Donati
Musica originale: Benedetto Ghiglia
Montaggio: Nino Baragli
Aiuti alla regia: Sergio Citti, Fabio Garriba
Assistente alla regia: Sergio Elia

Produzione: Gianni Barcelloni Corte, BBG (primo episodio), Gian Vittorio Baldi e IDI Cinematografica (Roma), I Film dell’Orso, CAPAC Filmédis (Parigi) (secondo episodio)
DistribuzioneINDIEF.
durata: 98 minuti