Il cinema asiatico, che ha fatto il suo ingresso trionfale a Venezia circa dieci anni fa grazie all’ex direttore della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Marco_Müller, è ancora una volta in trionfo nel Belpaese.

Fu proprio il direttore artistisco, attuando una specie di diplomazia del Ping Pong ante litteram (cinematografica), a promuovere nella laguna la visione di una cultura specifica di quel mondo orientale, ai più sconosciuta e lontana, quella cinese – allo stesso tempo e curiosamente – dichiaratamente comunista e in rapida crescita economica.

E così si è fatta la conoscenza di film irreperibili, come ad esempio la Trilogia della vendetta del sudcoreano Chan-wook Park (Vengeance, I tre fratelli, Lady Vengeance), pellicole che – grazie a registi affermati e pop come Tarantino (in Kill Bill col suo talento spiazzante e multiforme ha introdotto sul grande schermo i manga, la marzialità di un popolo e anche la sua intensa poesia (come il duello fra le due donne sotto la neve al cigolio di una fontanella) – stanno influenzando alternativamente tanto la produzione quanto la distribuzione cinematografica.

Nonostante questo nuovo interesse, per il cinema asiatico si parla ancora di produzione di nicchia, caratterizzate da indagini impietose – spesso dilatate dall’assenza delle colonne sonore – e dala descrizione di un quotidiano che attende di essere soppiantato da uno nuovo (lo Still Life di Jia Zhang-ke, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2006).

Film ancora oggi non facilmente recuperabili nei circuiti comuni, ma che hanno il grande vantaggio di offrirci il mondo asiatico visto da vicino e che insinuano la mordace domanda delle lezioni del prof. Ezio Raimondi: “Il nostro viaggio di uomini è turistico oppure è un pellegrinaggio verso una meta?”.
In ogni caso, il cinema ha consentito una rotta di avvicinamento ai mercati e società con la sensibilità che solo l’arte può suggerire. A Venezia, dopo le proiezioni si vedevano gli ospiti di riguardo imprenditoriale imbarcarsi alle feste organizzate dalle Maison per potere (come già fece Marco Polo) trasformare il viaggio in impresa, come se fosse una nuova via della seta.

Grazia al cinema possiamo avvicinarci a culture e modi di sentire distanti, che all’occidente si frappongono per la Babele del linguaggio e del sentire. E così, quando a Bologna si è svolto un incontro fra la cultura coreana e quella italiana, ho seguito l’onda aperta dalla prima cinematografica – in coreano, sottotitolata in italiano – del film di Kim Ki-Duk Pietà al Lumiere, presentata dall’ambasciatore di Corea.

La trama si snoda attorno alle vicende di un esattore di una organizzazione criminale, che presta il denaro a strozzo e riscuote i debiti decuplicati non uccidendo i creditori, ma mutilandoli per far loro recuperare i soldi dall’assicurazione (cosa che non potrebbe fare in caso di morte).

La trama ci porta a seguirlo in quartieri modesti, con spazzatura in giro, piccole botteghe artigiane nelle quali aggirarsi, tra gente che ha piccole imprese per componenti e rivela una vocazione fortemente meccanica della società.
L’incontro con la morte spinge le vittime alle reazioni più imprevedibili, come quelle del padre di famiglia che vuole amputarsi entrambe le mani, ricevendo il doppio della cifra, per potere pagare il debito e occuparsi del figlio nascituro.
Oppure quelle di un operaio che, osservando dall’alto la inesorabile distruzione della città vecchia in cui è vissuto da sempre, decide di suicidarsi.
Una critica veramente sferzante al capitalismo, alla mercificazione e alla morte dell'”uomo”.

Improvvisamente, nella vita del sicario, irrompe una figura materna, una donna che afferma di essere la madre andata via – mentre lui era in fasce – e di vorrebbe ricostruire il rapporto famigliare.
Il senso di riscatto della donna verso il sicario è talmente forte che lui inizia a provare sentimenti autenticamente filiali; in realtà, questa pietà, questo sciogliersi di sentimenti e di affettuoso dolore, di commossa e intensa partecipazione, sarà solo un primo passo verso non il riscatto, ma la tragedia, come un mito di Antigone rovesciato.
In questo film il regista coreano dimostra di sapere elaborare la cultura occidentale del mondo antico e classico, assumendo – nella caratteristica della pietà – le condizioni di una vendetta risolutiva e interminabile. Non c’è perdono “quante volte devo perdonare, Maestro?” chiedevano i discepoli a Cristo. La risposta, “settanta volte sette”, forse ci irrita e stizzise nell’essere sentite, ma il perdono è il superamento della rivalsa e del risentimento sopratutto in noi. Nel finale – che divide lo scorrimento di una strada alle prime luci dell’alba nel lavoro quotidiano – si eleva sorprendetemente il Kyrie Eleison (“Signore, pietà”), dubbio e forse conferma di una forza, quella della necessità di fare un salto, quella del perdono.

Titolo: Pieta
Regista: Kim Ki Duk
Attori principali: Lee Jung Jin, Jo Min Su
Genere: drammatico, thriller
Durata: 104min
Anno: 2012
Produttore: Kim Soon – Mo
Casa di produzione: Kim Ki Duk Film
Distribuzione:
Finecut
Fotografia: Jo Jeong Jik
Musiche: Lee Seoung- yeop
Montaggio: Kim Ki Duk