The_Omen_666Guardare un remake suscita sempre una certa eccitazione. Se non altro, per la consapevolezza di assistere al frutto di un atto d’amore. E’ un privilegio non comune entrare a far parte di un legame tanto intimo, divenirne addirittura il metro, perchè un remake non è solo un omaggio ma anche una sfida. In questo, soprattutto, sta l’emozione: nell’istinto filiale di emulazione competitiva.

Non conta che l’allievo superi il maestro. Conta che lo ami. E che ci mostri come.

Omen 666 è un remake, di un ottimo film del ’76 diretto da Richard Donner e intitolato semplicemente The Omen. Il regista, l’irlandese John Moore, è reduce da un altro rifacimento, non proprio brillante, per la verità: Il volo della fenice del 2004. Per Omen, tuttavia, si avvale della sceneggiatura di David Seltzer, autore del romanzo da cui è stato tratto anche l’originale.

La trama è intrigante: il politico Robert Thorn viene informato della tragica morte del figlio che la giovane moglie ha appena partorito. Un prete lo persuade a sostituirlo con un altro neonato, rimasto orfano nella medesima notte. Robert ama il bambino come fosse il proprio ma, trascorsi cinque anni, l’insolito susseguirsi di inquietanti accaduti lo trascina in una cupa spirale di disperazione. Con l’aiuto di un fotografo, dovrà tornare sulle tracce del proprio passato fino a scoprire che il figlioletto Damien è nientemeno che l’incarnazione dell’Anticristo.

Nel film di Donner, la tensione e il sospetto si insinuavano progressivamente, nella famiglia e nel pubblico, grazie ad un sapiente crescendo di atmosfere minacciose e situazioni sopra le righe. Un ruolo essenziale lo giocavano la precoce bravura del piccolo Harvey Stephens e le musiche suggestive di Jerry Goldsmith, primo premio Oscar nell’ambito dell’horror.

La pellicola, inoltre, manifestava il clima di profonda angoscia che affliggeva l’America all’indomani del Vietnam: il pessimismo, il senso di condanna e la sfiducia in tutte quelle figure, sociali e istituzionali, che dovrebbero garantire tutela e protezione, come i politici, il prete e la balia. Solo il fotografo superava indenne il giudizio morale, proprio perché esponente di quella categoria che sul conflitto aveva fatto luce, mostrandone, all’opinione pubblica, scandali e atrocità taciute.

Quando Moore gira il remake il contesto è profondamente mutato. Egli stesso mostra di saperlo bene quando alle profezie dell’Apocalisse associa le immagini della tragedia dello Shuttle Columbia, dello Tsunami indiano e del crollo delle Twin Towers.

L’intento, dichiarato, è cavalcare l’onda del neo-messianesimo tornato in auge al cambio di millennio. Lo conferma senza dubbio la data di uscita nelle sale, 6 giugno 2006, sagace ricalco del ”numero della Bestia” ampiamente promosso nel battage pubblicitario e reso esplicito nel titolo.

Il successo al botteghino ne misura l’efficacia. Efficacia strategica, attenzione. Purtroppo l’impressione è che tanta abilità sia stata riservata solo alla fase promozionale. Viene anzi il dubbio, maligno, per carità, che la data in questione sia l’unico motore all’origine del film, ghiotta coincidenza per una produzione d’occasione.
Non si sarebbe così schizzinosi se non fosse per l’incomprensibile mediocrità del piatto, tanto ricco di ottimi ingredienti- il modello, David Seltzer, Mia Farrow- quanto povero nella miscela. Nonostante il plot quasi identico, quello di Moore è un film fortemente disorganico che tenta di supplire la carenza di suspance con il restyling avvenente dell’immagine.

L’inquietudine pervasiva dell’originale si traduce in una serie sincopatica di clichè che sfiora il ridicolo nell’inventario iconografico dei sogni di Katherine: bambino con cappio, bambino con maschera, bambino con sangue. Anche il ritorno del rosso acceso in diversi dettagli è un segnale di allarme che vuol essere glam ma sa di stantio.

Alla fine dei conti, non soltanto il film non spaventa ma, cosa strana, non coinvolge neanche, quasi che la storia non fosse più la stessa.

Evidentemente Moore non ha appreso la lezione. Il suo remake non è né critico né manierista, né audace né devoto. Semplicemente non è un remake. E’ un espediente commerciale.

Niente di male, beninteso, Hollywood vive anche di questo. Ma resta l’amaro di uno spettacolo malnato. Quello di un allievo che non ama il suo maestro.

La frase: “Non so di chi sia il figlio che sto crescendo”.

Regia: John Moore
Sceneggiatura: David Seltzer
Attori: Liev Schreiber, Julia Stiles, Mia Farrow, David Thewlis, Seamus Davey-Fitzpatrick, Michael Gambon, Pete Postlethwaite, Marshall Cupp, Reggie Austin, Matt Ritchie, Vee Vimolmal, Nikki Amuka-Bird
Fotografia: Jonathan Sela
Montaggio: Dan Zimmerman
Musiche: Jerry Goldsmith
Produzione: Twentieth Century Fox Film Corporation
Distribuzione: 20th Century Fox
Paese: USA
Durata: 110 Min