La rassegna dedicata a Pier Paolo Pasolini, organizzato dalla Cineteca nazionale presso la location temporanea del Cinema dei Piccoli a Villa Borhese, continua con Mamma Roma, secondo film di Pier Paolo Pasolini.

La pellicola può essere letta come la logica prosecuzione di un discorso iniziato dal poeta emiliano in Accattone, e cioè la “celebrazione” di un orgoglio popolare, di un esser presenti nelle pieghe anguste della storia, a diretto contatto con una cruda sopravvivenza che non risparmia nessuno, e con cui, volenti o nolenti, tutti devono imparare a fare i conti.

Si può dire dunque che è la puntuale registrazione (in certi tratti realmente grottesca e scanzonata) della durezza del vivere, dell’agrodolce sensazione di essere al mondo non per la morte (come amava ripetere Heidegger), ma per la vita in sé, senza caricarla di ulteriori e pesanti (quasi sempre astratti ed elegiaci) significati e nascosti simbolismi. Tuttavia, in Mamma Roma non vi è neanche un realismo estremo, un oggettivo “sociologico” che tende all’ideologia (come spesso accade per molti famosi film neorealisti), che è e rimane un film sul complesso e insolubile rapporto madre-figlio, tra aspirazioni della prima (che è stata costretta a “fare la vita” per farlo crescere in campagna) e l’abulica ansia del secondo, pargolo spaesato dalla grande città – forse abbagliato dalla sua impalpabile grandezza – che non riesce a trovare la propria strada, vivendo randagio tra le nuove periferie in costruzione e le rovine dell’acquedotto, ma nonostante tutto felice della propria banda di coetanei con la quale vive le esperienze dei furti negli ospedali, delle notte brave con giovani prostitute e, infine, l’amore innocente per una di quelle ragazzette sbandate che popolavano le allora incolte vallate romane.

Ritorna – come in Accattone – il tema centrale della riflessione pasoliniana: il vagabondare senza metà, l’abbandono di uomini e donne senza passato né futuro piantati qui e ora, senza rimedio o speranza di emancipazione, secondo uno spunto chiaramente di origine verghiana. Proprio dai romanzi di Verga, Pasolini, concepisce Ettore, il figlio della solare e tuttavia ombrosa Mamma Roma, come una sorta di Rosso Malpelo contemporaneo. Pur non essendoci più le miniere di zolfo, la polvere di un apparente nulla periferico in realtà nasconde l’essenza stessa del mondo e della vita: l’amore indiscriminato di una madre per il proprio figlio, che arriva ad assumere toni religiosi, soprattutto nel finale, quando Ettore, dopo aver lasciato il lavoro da cameriere – che la madre era riuscita a fargli avere tramite un piccolo ricatto -, decide di rubare una radiolina a un malato, ma finisce per farsi scoprire subito a causa di modi, goffi e ingenui,, non certo di uno “del mestiere”.

Finito in galera, stravolto dalla febbre e dalle convulsioni, Ettore viene rinchiuso in una sorta di centro di igiene mentale legato mani e piedi, e nella sua ultima evocazione, nel suo straziante dolore di innocente-colpevole, vi è tutta la passione di Cristo, il pio raccomandarsi alla madre e la supplica ancora infantile verso un Padre che lo ha “abbandonato”al suo destino.

In questa scena, davvero unica ed irripetibile, Pasolini cristallizza, rendendo però viva e fluida, tutta l’insolubile tragicità del suo essere figlio, il bisogno forse di “scusarsi” , di redimersi agli occhi della madre, sentendosi ingabbiato, schiavo di una coscienza-personaggio che gli impediva di realizzarsi come avrebbe voluto, di vivere liberamente come avrebbe desiderato. Ma è certo che le urla soffocate, i sospiri rotti dal pianto e dal sudore di Ettore, di un giglio nato nel campo sbagliato, di un ingenuo figlio del popolo inabile a sopportare le dure prove di una vita fatta di stenti indicibile e sacrifici (spesso vani), è la prova più alta del cinema di Pasolini e della sua poetica delle borgate.

Una regia asciutta e straordinariamente avanti per il suo tempo (il vero set era costruito dalla strada e dalle case dei borgatari), un paziente ed elaborato lavoro di riscrittura dialettale della sceneggiatura (come del resto in Accattone) che permette a tutta l’Italia di entrare a pieno in un mondo-linguaggio per quei tempi sconosciuto fuori da Roma, facendolo divenire l’idioma universale del popolo sofferente, degli uomini (solo per caso attori) con facce segnate dalla sofferenza e dalla miseria oggi introvabili:  sono queste le premesse narrative che mettono lo spettatore nella condizione di partecipare in prima persona alla battaglia disperata che una madre conduce – soprattutto in una città selvaggia e paleo-capitalistica come Roma – per ricondurre il sangue del suo sangue sulla retta via, salvandolo dai pericoli e dalle sbandate in cui un campagnolo come suo figlio, inesperto degli intrighi e dell’atroce cinismo di una grande città, può incappare (evocando l’irreversibile trasfigurazione corruttiva degli immigrati pugliesi in Rocco e i suoi Fratelli). Per farlo, sarà costretta – sotto ricatto del suo ex protettore Carmelo (un defilato ma sempre intenso Franco Citti) a ritornare sulla strada, a umiliarsi ancora per non far sapere ad Ettore il suo vero mestiere. Una donna che era riuscita a stento a liberarsi dal giogo infernale, dalla corruzione infame di quel mondo, aprendo un banco di frutta e cercando di iniziare una vita pulita ed onesta.

Niente da fare; il destino ineluttabile di un’atavica condizione sociale, torna ancora una volta a bussare alla sue porte, ma in questo caso – a differenza di Verga o del Dickens di Oliver Twist – seppur nel dramma lirico finale, nella morte atroce e senza appello di una vitalità anarchica – che aveva nella sua smaniosa ed enigmatica energia esistenziale la sua unica colpa -, sgorga una speranza, un trapasso “progressivo”, una tendenza possiamo dire “rivoluzionaria” di riscatto sociale e civile che non mancherà ad arrivare.

Anche in questo, nell’anticipare i temi tanto cari alla Nouvelle Vague e al ’68, Pasolini ha visto bene e più lontano rispetto ai vari accademici e studiosi di cinema, per il semplice motivo che egli sentiva il bisogno impellente di vivere personalmente ciò che avrebbe scritto e girato, “facendosi elemento interno” della sua stessa poetica, attore e protagonista del suo stesso cinema, in un’osmosi organica indissolubile con quel sottoproletariato che riteneva essere l’unica ancòra – smaliziata ed innocente – di salvezza in un mondo sempre più brutale e disumano, per via del naturale richiamo, profondo e incorrotto, alle radici e a una religiosità umile e “pagana” nei confronti della vita e della storia, così lontano dall’ idealismo crociano e dallo storicismo marxista dell’epoca.

Titolo: Mamma Roma
Regista: Pier Paolo Pasolini
Attori principali: Anna Magnani (Roma Garofolo), Ettore Garofolo (Ettore Garofolo), Franco Citti (Carmine), Silvana Corsini (Bruna), Luisa Orioli (Biancofiore), Paolo Volponi (Il prete), Luciano Gonini (Zaccaria), Vittorio La Paglia (Il signor Pellissier), Pietro Moggia (Piero)
Genere: Drammatico
Durata: 95′
Soggetto: Pier Paolo Pasolini
Produttore: Alfredo Bini
Produzione: Arco Film
Fotografia: Tonino Delli Colli
Montaggio: Nino Baragli
Musiche; Antonio Vivaldi
Scenografia: Flavio Mogherini
Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini