Il mondo di Lynch

Il documentarista Alexandre O. Philippe ci consegna un’interessante esplorazione de Il mago di Oz, della sua influenza sul cinema di David Lynch e sui suoi molteplici e contraddittori significati in rapporto all’immaginario americano in generale.

Da un lato, uno dei romanzi e dei film per l’infanzia più amati di tutto il Novecento, originariamente concepito come libro da Frank Baum nel primo anno del XX secolo, e poi trasposto al cinema da Victor Fleming nel 1939. Dall’altro lato, un maestro di regia riconosciuto su scala globale, definito come «l’uomo del Rinascimento del cinema americano», ultimo erede del Surrealismo europeo trapiantato a Hollywood. Sono questi i due poli abbracciati da Lynch/Oz, il documentario di Alexandre O. Philippe incluso nella nuova sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma dopo un primo passaggio la Festival di Tribeca di quest’anno. A commentare il rapporto tra Il mago di Oz e la filmografia di Lynch, non c’è nessun talking heads del regista di Twin Peaks o Mulholland Drive, ma il commentario, in voice-over, di un gruppo eterogeneo di critici, registi e scrittori che include John Waters, David Lowery e Rodney Ascher, tra gli altri. Di produzione interamente americana, il documentario sarà distribuito in Italia da Wanted.

Nel cinema contemporaneo una storia che accontenti tutti deve essere quasi impossibile da trovare, eppure due classici degli anni trenta-quaranta sembrano riuscire in questo proverbiale intento: Il mago di Oz di Victor Fleming e La vita è meravigliosa di Frank Capra sono due film che incarnano, assieme, «la quintessenza della favolistica americana». Da questa premessa prende le mosse il documentario di Philippe, per poi passare, attraverso un efficace split screen, a mostrare come specifiche inquadrature e situazioni del Mago di Oz siano state riproposte quasi immutate nei film più diversi, da Star Wars di George Lucas a Fratello dove sei? dei fratelli Coen.
Nel cinema americano però il regista che si è sempre dimostrato e dichiarato più vicino e più affezionato all’immaginario fondato da Il mago di Oz di Baum & Fleming è senza dubbio David Lynch. Classe 1946, Lynch aveva quattro o cinque anni quando lo vide per la prima volta in televisione e la pellicola della Disney, una delle prime a sfruttare al massimo le possibilità colorimetriche del Technicolor, sembra rappresentare per lui la scena originaria dell’immaginazione cinematografica lynchiana, fin nei simboli più reconditi. Riferimenti a Il mago di Oz possono essere riconosciuti in pressoché tutti i lavori di David Lynch per il cinema o per la televisione, dalla Palma d’oro per Cuore selvaggio, in primis, all’iconica serie Twin Peaks, dal tellurico Velluto blu fino a Strade Perdute. Del resto Lynch, reticentissimo fino all’estremo rispetto alla possibilità di parlare in maniera chiara del significato e delle ispirazioni dei suoi film, alla première newyorkese di Mulholland Drive accettò di rispondere, di fatto, a una sola domanda dal pubblico, quella del rapporto tra il suo penultimo lungometraggio e Il mago di Oz. La risposta fu, in tutta semplicità: «non passa un giorno senza che io non pensi al Mago di Oz». Sul tema è ritornato anche di recente, in un passaggio della sua lectio magistralis virtuale di filmmaking registrata per la celebre piattaforma Masterclass: «Il mago di Oz ha fatto sognare le persone per decenni. C’è qualcosa in quel film che è cosmico».

Partendo spunto dalle molte citazioni visive e da queste occasionali dichiarazioni stampa, Philippe, già regista di un documentario sulle origini della saga Alien, per il tramite del Il mago di Oz ci conduce in una piacevole e completa esplorazione dell’intero universo lynchiano. Il mago di Oz è una storia oltremodo universale, ricca di situazioni e di tòpoi – l’avventura in un mondo nuovo, il varco della soglia, l’approdo in un microcosmo straordinario ricco di sfide e di nemici, un generale tono da paradiso perduto che avvolge il tutto – e si potrebbero rinvenire somiglianze con film di dozzine di altri registi, anche in assenza di citazione dirette. Tuttavia, se il «niente dovrebbe essere scontato e niente è esattamente ciò che sembra» è il vero leitmotiv che unisce tutti i film di David Lynch, Il mago di Oz ha incarnato questa massima anni prima che il futuro regista nascesse, tra alberi di mele senzienti e sensibili, sottofondi via via sempre più cupi, con ricorrenti uccisioni di streghe che un Lewis Carroll neanche si sognava. Il mago di Oz in fondo è uno degli ultimi titoli di una genealogia di opere che, dal Seicento in poi, hanno riproposto la summa calderóniana la vida es sueño: David Lynch è il compimento di questa dinastia.
«La vita è piena di sorprese», diceva il banditore prima che lo squallido freakshow di John Merrick iniziasse, in The Elephant Man. Abbandonata la sfera del quotidiano, abbandonata la fiducia nella continuità del reale, Lynch non ha mai esitato a far ripercorrere ai suoi protagonisti percorsi simili a quello della Dorothy baumiana. Persino il suo unico film relativamente realistico, Una storia vera, qualche legame con il film Disney sembra averlo, benché i due film più marcatamente “oziani” di Lynch siano Blue Velvet e Wild at Heart, sia a livello di singole immagini o situazioni sceniche, sia da un punto di vista più generale di struttura narrativa.

Il finale de Il mago di Oz mostra un mago alle prese con il terrore di non riuscire a realizzare davvero i suoi trucchi, un mago che, come forse ogni mago, finge tutto pur di (ri)affermare una visione ludica e trascendente della realtà, deludendo però così le aspettative di Dorothy e degli altri protagonisti. Secondo il voice over che accompagna tutto il montaggio del doc, il personaggio del “vero” mago di Oz, all’apparir del vero, incarna un’apprensione che il documentario di Philippe collega con il celebre rifiuto, da parte di Lynch, di dare alcuna spiegazione sulle complesse fantasie visionarie alla base dei suoi film. Lynch/Oz di Philippe afferma altresì «una strana dichiarazione sull’inconscio americano» nella coincidenza che vide uscire, nello stesso anno e per la regia dello stesso Victor Fleming, due film così fondativi come Il mago di Oz e l’altrettanto immortale Via col vento. Indagare quello che il compianto Roberto Calasso definiva il «traffico di archetipi» nella cultura occidente si rivela così uno strumento diagnostico.

Perché l’America, rispetto all’Europa, ha sempre avvertito quest’insopprimibile bisogno, anche a livello di narrazioni collettive, di evadere nell’immaginario, di elaborare passati alternativi, rivisitati, come in Via col vento, o, più spesso ancora, come ne Il mago di Oz, in Star Wars, in Ritorno al futuro e innumerevoli altri film, di immaginare mondi futuri e/o fantastici, alternativi al nostro? E, in questa dinamica tendenza retrospettiva-manipolatoria-evasiva-deresponsabilizzante, che posizione colloca Lynch, nativo del Montana ma culturalmente a metà strada tra States ed Europa, legato com’è alle ultime propaggini del Surrealismo dalìano-bunueliano-jodorovskjiano? (A un certo punto di Lynch/Oz si definisce il regista come un «surrealista populista», e non a torto, per l’utilizzo da lui compiuto delle icone, dei miti, delle nostalgie e dei fetish collettivi dell’immaginario popolare americano di tutto il Novecento e non solo, Il mago di Oz in primis).

Sono queste le domande che restano e sorgono al termine della visione di Lynch/Oz, le domande che non sempre esplicitamente emergono dalle parole di uno dei sei relatori che, in altrettanti capitoli, si alternano al voice-over. Una riflessione molto interessante da questo punto di vista effettivamente c’è, sul finire del documentario: se David Lynch sembra rifarsi, venerare e al tempo stesso parodiare l’immaginario americano, soprattutto quello degli anni cinquanta, non è perché intenda decostruirne semplicemente i miti, ma perché è giunto alla consapevolezza delle abissali zone d’ombra che si concentrano attorno ai miti, per consentire alle star e alle icone di rilucere.
Da questa riflessione si potrebbe ripartire per continuare a interrogarsi sulla pertinenza e sulla funzione di David Lynch nell’immaginario contemporaneo, ultimo simbolista, prima ancora che surrealista, in un periodo di pura fine del simbolo. Il ritorno alla normalità, l’abbandono dell’Eden fiabesco presente al termine di innumerevoli narrazioni favolistiche all’americana – da Il mago di Oz a E.T. – L’extraterrestre, da Peter Pan a La bella e la bestia, fino al più recente Nel paese delle creature selvagge – implica anche una rinuncia al sogno, alla liberazione, alla ribellione: ma a differenza dei vari Fleming, Baum e Spielberg, David Lynch non è mai stato un regista dai finali facili.

Titolo: Lynch/Oz
Regia: Alexandre O. Philippe
Sceneggiatura: Alexandre O. Philippe
Fotografia: Robert Muratore
Montaggio: David Lawrence
Musiche: Aaron Lawrence
Produzione: Exhibit A Pictures
Distribuzione: Wanted
Genere: documentario
Uscita: TBA