Ben oltre il Neorealismo

Undici anni dopo il celebrato Le quattro volte, il regista Michelangelo Frammartino ritorna al cinema presentando, per la prima volta nel concorso ufficiale, l’ancestrale Il buco.

«Per usare un termine cinematografico, potremmo dire che le grotte costituiscono un fuori campo assoluto, anche perché la notte eterna che regna al loro interno sembrerebbe quanto di più ostile alla macchina da presa. Eppure, chi ama il cinema sa bene che il fuori campo, l’invisibile, rappresentano la sua “sostanza” più profonda. Mi colpisce la coincidenza che Speleologia, Cinema e Psicoanalisi abbiano il loro battesimo nella stessa data, il 1895 […]». In queste tre criptiche frasi si esauriscono le note di regia di Michelangelo Frammartino, regista di origini calabresi, classe 1965 che, consacratosi nel 2010 con la presentazione alla Quinzaine di Cannes de Le quattro volte, era apparentemente scomparso nel nulla. Questo silenzio registico termina con Il buco, selezionato nel concorso ufficiale di Venezia e definito dal direttore Alberto Barbera come un film che «ha la bellezza assoluta del diamante puro».

Lo spunto di partenza de Il buco, frutto di una coproduzione internazionale italo-francese, è una «storia vera» avvenuta nel 1961, nel pieno del boom economico italiano: la scoperta, da parte di un gruppo di giovani speleologi, dell’Abisso del Bifurto nel cuore del Pollino, una interminabile cavità sotterranea che, con le sue biforcazioni, arriva a sfiorare i 700 metri di profondità. Il buco è uno di quei film che, da solo, bastano a riscattare il cinema italiano da quella nomea di crisi che, ormai da tre decenni a questa parte, porta con sé. E i valori di questo film sono tanto contenutistici quanto formali, per una volta. Bastano a parlare da sé già solo i tramonti, che rendono Frammartino e il suo direttore della fotografia Renato Berta (a suo modo una leggenda del cinema italo-francese) della sorta di piccoli Friederich del grande schermo. Ma, nella trama apparentemente scarna del film, che segue piuttosto nel dettaglio i lavori di esplorazione degli speleologi facendosi suggestionare dalla potenza visiva e archetipica delle interminabili grotte, Il buco nasconde tracce di una costruzione registica ben più complessa, e meravigliosamente ardita.

I piani dell’alternanza registica del film sono almeno due. Il primo è il piano orizzontale, colto tra una stasi e un divenire che, essendo spesso tratteggiato con movimenti di macchina circolari, diventa a sua volta anch’esso ricorrente e in ultimo statico. Alcune inquadrature con la macchina fissa si ripetono più volte: una sorta di soggettiva del “buco”, con cui si apre il film; ma anche l’inquadratura di un pastore che osserva da lontano, appoggiato a un albero, il lavoro degli speleologi, prima di cadere malato. Nella circolarità ripetitiva e stagionale della vita dei campi si aggiunge però un secondo piano, il piano verticale, nell’alternanza tra un sopra e un sotto. Non può essere del resto un caso se, nei primissimi minuti del film, vediamo i paesani guardare tutti assieme su un piccolo televisore sgangherato, un servizio sul grattacielo Pirelli di Milano, con curiosi echi meta-televisivi da parte del presentatore che non ha problemi a mostrare la macchina da presa e lo stesso operatore riflessi nei vetri del palazzo. Questo servizio d’epoca, posto volutamente quasi a mo’ di incipit de Il buco, non si limita a creare un interessante contrasto visivo e spaziale tra il Nord e il Sud, tra la Milano bene del boom economico e la Calabria più sperduta di un Meridione disastrato: è anche una programmatica dichiarazione di intenti da parte di Frammartino, quasi un postulato di realismo.

Non per nulla allora, come nella migliore tradizione desetiana, Il buco è un film di fatto «senza trama», senza una successione serrata delle scene e, soprattutto, senza alcun eroe, senza alcun protagonista – senza, il che per il cinema italiano e non solo è inaudito, alcun personaggio. Epica senza epos, perché priva di parole e ancor di più di retorica, Il buco si fa racconto di una coralità esploratrice, di un lavorio ininterrotto, umile e sfibrante, che non può non riportare alla mente Surfarara, il corto di De Seta girato nelle miniere di zolfo della Sicilia centrale. Abbiamo visto come Frammartino ami ricordare che il cinema, la psicoanalisi e la speleologia siano nati praticamente nello stesso anno, il 1895: e allora ancora una volta non è senza significato che uno dei primissimi film della storia del cinema fosse La Sortie de l’usine Lumière. Frammartino non ne fa una questione di classe, come del resto e a maggior ragione non facevano neanche gli industriali fratelli Lumière, ma qualche richiamo, qualche allusione a una dimensione sociale, se non politica, è inevitabile. Già solo la scelta di raccontare la Calabria dei primi anni sessanta, invece che il Nord Italia o il mondo di adesso, è una chiara presa di posizione: e questo film tanto moderno nella concezione e nella fotografia è al tempo stesso memore della tradizione più antica del cinema, dei veri e propri esordi di fine ottocento, ed echeggiante molte schegge di ciò che di significativo, dal 1895 al 2021, ha attraversato il cinema italiano.

Il buco peraltro è un film nei fatti “muto”, o meglio senza dialogo con una resa eccelsa delle sonorità diegetiche e naturali. Si sentono appena poche parole in dialetto, di tanto in tanto, oltre che lo speaker della televisione che compare un paio di volte per poi non riapparire più: il proseguimento della narrazione, che anche per questo è senza una vera trama, è affidato tutto alle immagini, e quindi ai gesti degli anonimi speleologi – a cui i titoli di coda del film fanno omaggio alla fine, dedicando loro Il buco e nominandoli uno a uno. Il buco ci fa così toccare per mano il momento più estremo che l’immagine cinematografica può possibilmente sfiorare: senza spiegare verbalmente i gesti dei personaggi, senza esplicitarne di volta in volta gli scopi e i fini specifici che vadano al di là di una generale esplorazione della grotta e dell’Abisso, Il buco sa evocare quell’immagine e quell’inquadratura che sospende il significato, che si fa esperire innanzitutto nella sua datità, nella sua semplicità palpitante di visione, e che solo in un secondo momento e in maniera superflua si può ricondurre a una trama, a un senso, a una narrazione prestabilita. Il pastore osserva, gli speleologi esplorano, dei ragazzi giocano a palla sull’abisso: tutto è colto un attimo prima della significazione e, proprio per questo, nel momento stesso in cui lo sguardo diventa extraumano perché a-teleologico, il ruolo dello spettatore si fa più attivo, più coinvolgente, più essenziale.

Qui siamo oltre il cinema contemplativo. Lo slow cinema in Calabria sarebbe stato tedioso. È una vera e propria elegia, questa, un’elegia però rigorosa e amara, senza nostalgie ma senza neanche ritrosie nel rappresentare un mondo popolare, che più (quasi) non è ma che pure fu, e che portava con sé una tradizione millenaria in confronto alla quale anche il grattacielo Pirelli apparirebbe modesto. E pure è meravigliosamente suggestivo come, in svariate inquadrature del film, si vedano pezzi di giornale usati dagli speleologi per ricavare delle torce affondare o del tutto bruciare: pezzi di giornale che mostravano la diva di turno, o il volto sorridente del presidente Kennedy, o altre allusioni alla modernità e al boom economico. Chiaramente non si tratta di un film contro il progresso ma l’opera terza di Frammartino dopo Il dono e Le quattro volte grazie a questa fortunata intuizione visiva si riallaccia a tutto quel discorso sullo «sviluppo senza progresso» inaugurato da Pasolini negli Scritti corsari. Esempio di un cinema anticlimatico ma umanista, Il buco è davvero il film più inaspettato di tutta la Mostra e, probabilmente, quello che anche al termine della competizione risulterà quello formalmente più innovativo, più originale – grazie alla sua purezza originaria, e quasi regressivo.

Pur nella sua unicità, si può comunque ricondurre Il buco e in generale la filmografia di Michelangelo Frammartino a una sorta di sommovimento, nascosto in piena luce, del cinema italiano – del cinema italiano che passa per i festival più che di quello che arriva in sala, a ben vedere. L’opera filmica di Frammartino si colloca, al fianco delle filmografie di altri autori come Jonas Carpignano, Alice Rohrwacher e Salvatore Mereu in un processo di riscoperta dell’Italia dei paesi; e a questi nomi si potrebbe anche aggiungere quella curiosa operazione che è Nuovo Cinema Paleolitico di Davide Ferrario e Franco Arminio. Gli inevitabili numi tutelari di una simile operazione filmica sono da un lato il documentarista Vittorio De Seta, dall’altro lato il Bertolucci del Novecento. A ben vedere, le radici culturali di questa attenzione possono essere ricondotte a un’intermittenza tra Calvino e Pasolini nei confronti dei vissuti popolari e delle realtà rurali, a loro volta preceduti da Antonio Gramsci – per non arrivare a scomodare Verga, Pirandello e lo stesso Leopardi – senza dimenticare, fra i cineasti italiani degli anni sessanta-settanta, Ermanno Olmi e i fratelli Taviani. Ma se al principio degli anni novanta un critico attento come Goffredo Fofi riscontrava come Federico Fellini, con La voce della Luna, era l’unico in quel momento a occuparsi di una realtà vivida e viva come le specificità del retroterra paesano italiano, si può dire che adesso questo pericolo è stato sventato: nel cinema arthouse italiano che ci rimane, i paesi soprattutto del Sud Italia sono semmai sorprendentemente presenti, tanto quanto le periferie di Roma e di Napoli sono oggetto di una continua narrazione stereotipata e stereotipante.

Senza voler per forza instaurare un confronto in termini di meglio o peggio con altre opere dense ed evocative come Le meraviglie di Rohrwacher o Assandira di Mereu, non si può dall’altra parte negare come, su un piano formale, Il buco di Frammartino operi una silenziosa ma profonda rivoluzione quale al cinema italiano non se ne vedeva da tempo – l’unico altro titolo paragonabile era stato Favolacce dei D’Innocenzo, ma in modo più urlato e meno rigoroso. Il buco: un cinema al grado zero, che indaga con lo sguardo là dove non si può vedere, che si affida tutto a torce, a piccoli riflessi, e a quella luce ammaliante dei tramonti calabresi. Dalla storia della critica cinematografica riemerge allora un passo oltremodo seminale della lunga recensione che André Bazin, il fondatore dei Cahiers du Cinéma, aveva dedicato a Ladri di biciclette: recensione nella quale Bazin indicava nel film di De Sica uno dei primi esempi concreti del concetto, da lui inseguito, di cinema puro. «Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena», enumerava Bazin, «cioè finalmente nell’illusione estetica perfetta della realtà»: vale a dire, «niente più cinema». Ecco, l’impressione a caldo dalla Sala Darsena è che Il buco di Michelangelo Frammartino sia il film italiano che più di tutti si adatti a questo baziniano concetto – andando, di suo, ben oltre il Neorealismo.

Titolo: Il buco
Regista: Michelangelo Frammartino
Sceneggiatura: Giovanna Giuliani, Michelangelo Frammartino
Attori principali: Paolo Cossi, Jacopo Elia, Denise Trombin, Nicola Lanza
Scenografia: Giliano Carli
Fotografia: Renato Berta
Montaggio: Benni Atria
Costumi: Stefania Grilli
Produzione: Doppio Nodo Double Bind, Société Parisienne de Production, Essential Filmproduktion, Rai Cinema, Arte
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 93’
Genere: drammatico, storico
Uscita: da annunciare