i-love-shopping-6I Love Shopping” di Paul J. Hogan è un film pienamente ascrivibile alla categoria dei “blockbuster”: circa 100 minuti di simpatia, sorrisi, borse griffate e neologismi fashion (“l’ho googlato”), tutto inframezzato da più o meno ardue avventure.

Infatti, la vita di Rebecca Bloomwold si divide tra lo shopping sfrenato e compulsivo, senza ritegno né morale, passione che la renderà vittima della caccia di un viscido impiegato del recupero crediti, e il tentativo di trovare lavoro, lei che è giornalista, in una pubblicazione di moda. Rebecca deve però arrivarvi per vie traverse, iniziando la sua scalata al successo nello stesso gruppo editoriale della rivista dei suoi sogni, ma al servizio di una redazione che si occupa di finanza, risparmio e tutela del consumatore.

Con uno stile frizzante ed energico, nonostante il suo approccio naif all’economia, la ragazza crea un fenomeno mediatico, rompendo schemi e costumi dell’editoria e diventando la bandiera dell’ascesa della rivista, diretta da un uomo che, piano piano, la affascina sempre di più. I problemi di sempre, però, non sono ancora scomparsi e andranno quindi affrontati una volta per tutte.

Siccome, fuori dalla sala, la sensazione è che ogni cosa vista sullo schermo stia scivolando via senza difficoltà dai ricordi, sfuggendo ai primi abbozzi di riflessione, sorge il bisogno di trattenere qualcosa della e dalla pellicola. Scandagliando il film ci si accorge che ogni tanto sa di “Sex And The City”, molto spesso di “Il Diavolo Veste Prada”.

Questi sono però aspetti puramente formali. Ogni critica o elogio a riguardo lascia, probabilmente, un po’ il tempo che trova. Dopotutto l’aspetto più atteso di questa produzione non è certo dato dalla ricerca stilistica, per quanto non ignorata dagli autori: infatti la storia scorre bene e senza intoppi per tutta la durata della pellicola.

L’attesa è, invece, tutta per le tematiche. Un argomento come quello della dipendenza da shopping è ghiotta occasione per simpatiche approvazioni e piccole immedesimazioni dello spettatore-fan così come, allo stesso tempo, per feroci critiche e accuse di materialismo, immoralità e sdegno generico da parte dello spettatore-detrattore. Senza schierarsi con gli uni o con gli altri e invece procedendo nell’analisi, è interessante porre l’accento su come siano state presentate le confessioni di questa “shophaolic”: seducenti e affascinanti. Proprio come le vetrine della 5th Avenue, nelle quali danzano, letteralmente, manichini ammiccanti e magicamente animati.

Ovviamente quest’ultima trovata è inserita in una situazione volutamente “esagerata”, ma dona alla condizione della povera Rebecca un tono divertente e scherzoso, amichevole: e, se è vero che l’iperbolico e l’assurdo sono connaturati al taglio comico del film, è altrettanto vero che, così, si entra direttamente nella realtà della dipendenza della protagonista, senza possibilità di fuggirne, facoltà, questa, che spetta solo al libro (infatti convinzione personale di chi scrive è che il film lascerà meno pubblico insoddisfatto rispetto ai romanzi, ennesima conferma del potere immenso del cinema).

Non c’è una posizione critica, favorevole o negativa che sia, nei confronti del “life-style” di Rebecca: c’è solo una (euforica) narrazione, che non fa pendere l’ago della bilancia da nessuno dei due lati, tant’è che la cosa che più lascia interdetti, che più stacca nell’insieme tematico è il finale, dove sembra intravedersi l’ombra di una morale che non dovrebbe esistere (e che nella realtà dei libri, difatti, manca).

Senza tradire la trama, basti sapere che, nel risolvere i suoi problemi, Rebecca non taglia i ponti con i suoi vizi, anzi, li sfrutta, pur se da un’altra prospettiva, sguazzandoci dentro più che mai. La sua ricerca (e scoperta) di una “retta via” è data da un riassetto delle priorità della sua vita: vince perché impara a convivere con i suoi difetti, eliminando gli eccessi, ma non i difetti in sé.

Non c’è catarsi, quindi, in “I Love Shopping”, ma nessuno (neanche il più accanito dei detrattori) probabilmente ne sentirà la mancanza: si resta invece soddisfatti alla riuscita del compromesso, che concede il successo pur non gettando al vento la passione. Probabilmente risiede qui il fascino, più o meno efficace, del film: la vittoria di Rebecca è una vittoria senza rinunce, pur se non gratuita, e questa cosa non può che ammaliare nel buio della sala cinematografica.

Vedere gli sforzi di una persona nei guai premiati dal desiderato successo, un successo senza sconti, è gratificante per umana compassione. Però questa felicità, che in fin dei conti non è nostra e, soprattutto, ci sembra che non lo potrà mai essere, è flebile e svanisce da sola col tempo, lasciando allo spettatore il ricordo di uno svago e nulla più, ma chi si aspettava o voleva altro?

I Love Shopping” va assolutamente bene così: ed anche se lo accantoneremo subito in un angolo dell’armadio della nostra mente, può, ad ogni modo, essere considerare un onesto buon affare.