la rivelazione dei Golden Globe

Trionfa ai Golden Globe portando a casa il premio come Miglior Serie/Commedia, l’originale sceneggiato musicale che solo apparentemente “somiglia” ai talent show giovanilistici a cui siamo abituati.

La serie riporta la firma in calce del talentuoso Ryan Murphy (tanti avranno goduto della spregiudicata genialità del suo Nip/Tuck), che ricicla i temi delle “high school” già affrontati nella meno fortunata serie Tv del 2000 Popular, forse troppo avanti rispetto ai tempi ancora poco maturi.

Chi ha potuto guardare anche solo qualche puntata di Popular ritroverà in Glee snodi essenziali e cari allo sceneggiatore, come la volontà di irridere gli stereotipi americani, ridotti a macchiettistici peccati di una nazione frivola, che educa alla popolarità e al successo ben prima (e ben più) che alla sostanza, e che pone a fondamento della piramide sociale un riconoscimento che è quantitativo e spesso illusorio, quasi quanto la castità millantata da una delle protagoniste, emblema di un’ipocrisia che va a braccetto con  serio e faceto, ed è tanto pericolosa quanto buffa e assurda in se’ (e dato che i chastity club furoreggiano nelle high school, Quinn, la santarellina in questione, non poteva che rimanere incinta!)

Non mancano le prese in giro della disabilità e della diversità tout court (handicappati e gay come se piovessero), in un politically incorrect che è scelta di campo e cifra di uno stile, che fa assomigliare la TV di Murphy al più dissacrante cinema dei fratelli Farrelly: poco rassicurante e completamente irriverente.

Glee è un termine che indica gioia e brio, e il Glee club di cui parliamo è un concentrato di nerds capitanati da un appassionato prof. di spagnolo, piacione e nostalgico dei (suoi) tempi andati, disposto a investire tutto se stesso (e qualcosa di più), pur di portare questo nugolo di disadattati sociali alla vittoria delle provinciali prima, e delle regionali poi.
Il Glee Club canta e balla, ed è così che esibisce la gioia di vivere che forse manca ai “piani alti della piramide”, i cui inquilini finiranno per confluire spontaneamente nel gruppo, tanto scalcinato quanto talentuoso e carico di un entusiasmo contagioso.

Ovviamente il Glee Club ha un nemico contro cui dovrà vedersela e da cui dovrà difendersi : la temibile prof. di ginnastica Sue Sylvester, che col suo piglio tonico e deciso cercherà di seppellire il club canterino per riappropriarsi dei fondi scolastici (pochi, anche in America), e destinarli al “suo” club di cheerleader, considerato da sempre un vanto per la scuola, apice della gerarchia sociale.

La vicenda si snoda alternando situazioni paradossali (il protagonista crede di aver messo incinta la sua ragazza “eiaculando” nella stessa vasca da bagno), a momenti di pura commozione in cui non si potrà non apprezzare l’audacia delle scelte narrative sopra le righe (le coreografie in carrozzella per celebrare l’alunno disabile) che cesellano e incastonano coreografie gradevoli, o momenti di puro canto decisamente emozionanti, come quelli in cui si esibisce la punta di diamante della serie: la intensissima Lea Michele, una vera star.

Capace di passare da Liza Minnelli alla più “popolare” Rihanna, la Michele, classe 1986, è praticamente nata su un palcoscenico di Broadway, e conferisce alla serie quel tocco di autorevolezza che le evita lo strapiombo (quasi sempre dietro l’angolo) nel demenziale più autentico.

La giovane ha carattere canoro (ve ne accorgerete subito) e recitativo, e delinea il personaggio di Rachel come meglio non si poteva, miscelando atteggiamenti da  odiosa maestrina leziosa, a sincera e appassionata musicofila, innamorata delle ballads e di Finn, tarchiato compagno, bamboccione ingenuotto e rubacuori, “concesso” al Glee Club dalla poco conciliante squadra di football. Finn rappresenta il “ponte” ideale tra le due irriducibili caste americane: da un lato i “patrizi”, inavvicinabili e alteri, meritevoli per nascita, baciati dalla bellezza, dal denaro o dalle qualità sportive. Dall’altro i “plebei”, che tentano il riscatto e la rivincita attraverso qualità meno evidenti e “rilevanti” come il talento in una certa disciplina (anche in Popular il mondo era così diviso, ricamato intorno agli archetipi della bionda reginetta di bellezza Brooke McQueen, a cui si contrapponeva la bruna Samantha, “solo” brava scrittrice).

Coppie di significato semplici ed immediate, dunque, tanto semplificate quanto attuali e mai desuete nel descrivere una moralità collettiva riducibile (purtroppo) ad un sistema manicheo che ben si codifica nei binomi biondo/bruno, ricco/povero, bello/brutto, popolare/fallito.
Il tutto, senza paternali di sorta.

Con un registro fresco, spumeggiante e a tratti comico e farsesco, Glee conquista pubblico e critica, cavalcando uno stile pop senza scadere nell’ordinario, e offrendo al pubblico di più giovani un’antologia di brani interessanti e da riscoprire, con una certa predilezione per gli ’80 a metà fra la voga e la nicchia.

Confermandoci che, in controtendenza col grande schermo, il futuro delle serie TV made in Usa, sembra sempre più roseo.