Questo documento, ritenuto per lungo tempo un falso della propaganda di regime, rivive oggi nel suo originale splendore“. È la voce di Corrado Guzzanti, modulata sui toni marziali e propagandistici dei cinegiornali dell’Istituto Luce, ad introdurre la cronaca della fantomatica conquista di Marte da parte di un manipolo di camerati fascisti: l’ultima frontiera dell’espansionismo fascista, ossia l’espansione “in verticale”, viene finalmente documentata, a detta della voce fuori campo, dopo anni di imperdonabile occultamento da parte di una storiografia faziosa e marxista (da cui la vittoria “negata” del titolo).

Al soldo del macchiettistico gerarca Barbagli (Guzzanti), emulo, nel pensiero e nella mimica, dell’amato duce, gli intrepidi proseliti del “regime che seppe ridare dignità all’Italia”, appena sbarcati sul pianeta rosso (dunque ineluttabilmente “bolscevico e traditore”), riportano già una prima vittoria sull’inospitale atmosfera ipossigenata, cui oppongono quel fiero “me ne frego” che è la sintesi lapidaria e vigorosa dell’affermazione di superiorità del conquistatore: “ossigeno o no, Marte sarà conquistata”!

Si tratta di uno dei numerosi esempi della satira che il film muove alla tronfia ottusità del regime.
In tal senso, esilarante, fin già nella consistenza fonetica del nome del nemico, è la surreale guerra condotta contro il popolo indigeno dei “mimimmi”, semplici sassi provvisti di buffe antenne, la cui minerale imperturbabilità viene scambiata per sovversiva resistenza antifascista. Ostili persino alla proposta (puro esempio di diplomazia fascista) di “un’alleanza interplanetaria da pari a dispari: noi sopra e voi sotto”, i mimimmi diventano prima bersaglio di una gretta propaganda diffamatoria, tesa ad apostrofarli coi denigranti appellativi di “anglosassi” e “omosassuali” e a rappresentarli come stalinisti avidi e divoratori di bambini (il che, trattandosi di pietre, non manca di rivelare il lato farsesco della vicenda), e, in secondo luogo, nemici su cui sfogare il proprio desiderio di “menar le mani”, nella convinzione che “la storia, senza guerre, si ferma”.

Il film è un documentario fantascientifico, girato in una cava in zona Magnana, a Roma, quasi interamente in un bianco e nero virato al rosso, che fa il verso ai prodotti destinati ad imbonire e distrarre il pubblico che popolava le sale negli anni del regime: condotto sulla falsariga di un cinegiornale, riproposto in chiave caricaturale attraverso uno scrupoloso lavoro di ricerca linguistica, teso a far emergere le sfumature di un italiano retorico fino al parossismo, epurato dai forestierismi fino al ridicolo, il lungometraggio di Guzzanti ripropone allo stesso tempo quei gesti essenziali, da pantomima, che hanno fatto la fortuna delle slapstick comedy nell’era del muto.

Al cinema muto rinvia senz’altro la citazione del Grande Dittatore di Chaplin, della scena, in particolare, in cui l’Hitler chapliniano faceva lievitare un mappamondo gonfiabile; a questo film sembra doversi ricondurre anche l’espediente del monologo finale, che consiste in un triste e rassegnato bilancio della storia dell’ultimo secolo: “La verità è quella che vi dicono. E poi il problema in Italia non è mai stato tanto di saperla, ma che, saputala, tutto resta uguale. Perché voi italiani siete come i mimimmi, cui tutto passa sopra senza un fiato. Credete forse oggi voi di essere liberi, votate per dieci volte l’anno gente che a volte neanche conoscete e che una volta eletta fa ciò che vuole. La dittatura è un sistema per opprimere il popolo, la democrazia è un sistema per costringere il popolo ad opprimersi da solo“.

Purtroppo, il genio di Guzzanti, principale regista e sceneggiatore, non riesce del tutto a distogliere dai limiti evidenti del film, che non manca di tradire una certa inadeguatezza rispetto alla destinazione cinematografica: nato, in fondo, come serial televisivo, mandato in onda nel 2002 all’interno del programma “Il caso Scafroglia”, Fascisti su Marte (2006) presenta effetti speciali francamente rudimentali (i migliori, comunque, che il genere fantascientifico in Italia abbia mai offerto) e una recitazione a tratti viziata da un eccesso di goliardia, chissà quanto calcolata.
Ciò non toglie nulla, beninteso, all’originalità del progetto e al sapore sempre pungente, mai velenoso, della sua satira. È la satira che l’Italia fascista non vide mai, ma probabilmente è anche l’unica possibile (indiretta) nell’Italia del secondo governo Berlusconi, nell’epoca di nuovi editti censorei.

La frase:” Si è pronti a morire per una buona causa, ma, in mancanza, si muore anche a vanvera.” (Barbagli)