Ed Wood è la ricostruzione, ispirata alla biografia firmata da Rudolph Grey, degli anni centrali della vita dell’omonimo cineasta, uno dei padri del genere dei B-movies anni ’50, stigmatizzato dalla critica come “il peggiore regista di tutti i tempi”.

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Nessuna sorpresa, quindi, che su di lui Tim Burton incentri la trama di un film che, in fondo, si propone di raccontare uno scorcio della storia del cinema hollywoodiano, nell’epoca segnata dai tentativi di riportare alle sale il sempre crescente pubblico televisivo con prodotti commerciali di dubbia qualità.

Il regista di Edward Mani di forbice ci ha infatti abituati a considerare la realtà sotto insolite angolature, mai convenzionali, mai ortodosse, filtrandola attraverso l’entusiastica innocenza, teneramente naïf e pateticamente ostinata, del “fanciullino” reietto alla costante ricerca di un riconoscimento, di una legittimazione da parte di quel mondo che gli restituisce, in cambio, uno sguardo ostile di incomprensione.

Edward D. Wood Jr. (interpretato dal solito e sempre calzante Johnny Depp) è una maschera burtoniana, vissuta nel mondo reale prima ancora di essere trasposta sulla pellicola: regista di “boiate”, per dirla con le parole del produttore della Screen Classics, Wood è un idealista eccentrico, privo di senso del ridicolo (il che, nel contrasto con il contesto perbenista e pragmatico nel quale egli aspira a inserirsi, costituisce la cifra del suo carattere grottesco), con una passione candidamente confessata per il travestitismo e per i golfini d’angora delle sue amanti.

A differenza di altre creature burtoniane, Ed Wood non soffre però il dramma dell’isolamento: a dare enfasi alla sua statura anticonvenzionale, lo circonda una cricca di amici, tecnici ed attori improbabili, che formano un vero e proprio circo di “mostri”, non troppo dissimile da quello che popolerà il successivo Big Fish. Tra tutti, spicca il personaggio di Bela Lugosi, interpretato da un eccellente Martin Landau, vincitore, per questo film, di un meritato Oscar come migliore attore non protagonista.

Bela è un attempato attore, squattrinato e dipendente dalla morfina, passato alla gloria del cinema per le sue interpretazioni in film degli anni ’30 come L’isola degli Zombies e, soprattutto, Dracula, dimenticato da tutti e da tutti creduto ormai morto, riportato al cinema negli ingrati ruoli offertigli da Wood, suo giovane e generoso ammiratore, al quale, negli ultimi anni della sua vita, lo legherà un sincero affetto paterno.
A Bela Lugosi manca, tuttavia, lo smaliziato candore di Ed Wood: egli è il personaggio tragico del film, in bilico tra la dignità orgogliosamente esibita dell’attore e la rassegnata fragilità dell’uomo. Ma Bela rappresenta al contempo uno spunto di riflessione sulla spietatezza della macchina hollywoodiana, pronta a “masticare bene e poi sputare” i grandi attori, votata ad una meschina logica di profitto, in nome della quale il manifesto (l’immagine) precede il copione (il contenuto) nell’ordine gerarchico.

Contraltare di un tale corrotto sistema, l’Orson Welles interpretato da Vincent D’Onofrio interviene in una delle scene finali ad incoraggiare lo sfiduciato Wood con queste parole: “Bisogna combattere. Perché spendere una vita per realizzare i sogni di qualcun altro?“.

Quanto basta per far recuperare al giovane cineasta la sua fiducia, sempre ottimistica, mai narcisistica, nel suo presunto talento. Un talento in cui Tim Burton sembra credere e a cui intende rendere omaggio, scegliendo di girare un film in perfetto stile Wood, in un bianco e nero chiaroscurato, espressionistico, che dà occasione al regista di giocare con le ombre; con un prologo recitato da un Jeffrey Jones in versione vampiro, seguito da titoli di testa, basati sull’espediente dei nomi del cast incisi su delle lapidi.

La prospettiva a volo d’uccello che apre il film, assumendo come punto di fuga l’inconfondibile scritta Hollywood, che sovrasta una Los Angeles temporalesca come un marchio pubblicitario, come il comignolo di una fabbrica, si ripropone in chiusura, con la solita insegna intenta a guardare dall’alto in basso la città e a rivelare, ora sì, sembra di scorgerlo, un ghigno sinistro da tiranno, preludio, forse, al fallimento storico delle ambizioni artistiche di Edward Wood.

La frase: “Il cinema è la magia dell’insieme” (Edward D. Wood Jr.)