Inesorabile come la peste che deturpa coi suoi colori cupi i fotogrammi iniziali, arriva in Italia il film prodotto, tra gli altri, da Roberto Cavalli (che debutta anche nel ruolo di costumista) e dai coniugi De Laurentis, annunciato nei mesi scorsi da vibranti squilli di tromba e accolto da algide reazioni più o meno unanimi.

Il titolo, che sostituisce in Italia il più didascalico “Virgin territory”, è già tutto un programma: un programma (bisogna darne atto ai machiavellici distributori italiani) astutamente pensato per guadagnare al film la curiosità immeritata di spettatori convinti di assistere alla trasposizione sullo schermo di un’opera letteraria e, per di più, mossi dal sano desiderio di staccare per una volta il filo al cinema intimista, angoscioso, da festival, per concedersi qualche minuto di incolpevole, demenziale ilarità.

Il “territorio vergine” è quello del convento di suore in cui Lorenzo de Lamberti (interpretato dal giovane Skywalker, alias Hayden Christensen, inespressivo come sempre), fuggito da una Firenze in balia della peste e dell’arbitrio dei prepotenti, trova asilo come giardiniere, diventando presto oggetto del desiderio delle “vergini” ospiti (tra loro Anna Galiena, prestatasi ad un trascurabilissimo cameo, ed Elisabetta Canalis, protagonista di una tanto chiacchierata quanto concentrata scena di nudo); ma è anche allusione al voto di Pampinea Anastagi (Mischa Barton, la star lanciata dalla serie The O.C., che non pochi ricordano ancora ne “Il sesto senso”, nel ruolo della bambina con problemi di riflusso esofageo!), nobile rimasta orfana, vittima dei ricatti del crudele Gerbino de la Ratta, che la vorrebbe in sposa, a discapito della promessa di matrimonio che la lega invece ad un conte russo.

Pampinea sfugge alle pressioni di Gerbino e trova ospitalità presso lo stesso convento che ha accolto Lorenzo: l’idillio tra i due nasce come un sentimento casto e pudico. Alle vicende che hanno come protagonisti i giovani amici di Pampinea è invece affidato l’onere di mettere in scena i temi più tipici dell’opera di Boccaccio, che vengono tuttavia banalizzati puntualmente da intrecci narrativi inconsistenti: il potere della seduzione, l’astuzia, il gioco delle apparenze, in virtù del quale l’abito fa il monaco, il sesso come istinto naturale, qui per lo più “animale”, cui fa da contrappunto una verginità bigotta, si direbbe quasi anacronistica già nel Trecento.

Un simile scenario non mancherà di deludere le ingenue aspettative di quanti, se non direttamente all’autore del Trecento, guarderanno altrimenti al precedente rappresentato dal Decameron di Pasolini, certo contando su una rielaborazione in chiave attualizzante, libera finalmente dalle implicazioni sociali della tematica sessuale, che lì era baluardo vitalistico e provocatorio contro il perbenismo e il grigiore borghesi, e inoltre augurandosi un bis per potenza visiva e sapienza registica: i nomi di Boccaccio e di Pasolini sono solo rimandi casuali e ingiustificati, al punto che appare fondato il perfido ma convincente sospetto che dell’opera boccaccesca il regista e sceneggiatore di Decameron Pie si sia limitato a leggere l’indice e poco altro.

Ma non servono le illazioni, quando basta sottoporsi alla visione soporifera di una messinscena costata 40 milioni di dollari, per rendersi conto che dell’originale trecentesco sono sopravvissuti solo i nomi dei personaggi della cornice, non senza prevedibili ammiccamenti (non so quanto fondati linguisticamente fuori dal doppiaggio italiano) all’ambiguità del nome Pampinea, nonché una isolata e neppure troppo significativa citazione poetica (“Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna“), mentre di American Pie rimane soltanto l’attenzione pruriginosa per un triviale erotismo che qui, tuttavia, sembra avere esaurito le proprie presunte potenzialità comiche.

Per il resto, la trama scorre tra evidenti scollature (superfluo il tentativo di raccordare le sequenze utilizzando una voce narrante fuoricampo), rimarcando costantemente la sua vocazione ai contenuti sessuali, senza tuttavia riuscire ad inserirli in cornici narrative credibili. È proprio la credibilità quella che manca a Decameron Pie: il film infatti pretende di essere irriverente nella sostanza e comico nella forma, ma finisce per creare una parodia di se stesso.

Addirittura irritanti gli anacronistici brani rock che compongono la colonna sonora e che, insieme alla scelta di protagonisti scelti tra le icone del mondo giovanile, corrispondono allo squallido tentativo di ingraziarsi il pubblico dei teen-ager.

La frase: “Non tutti i vergini sono angeli e non tutti gli angeli sono vergini.”