Un horror italiano fuori dal genere

Smarrirsi non è mai presagio di liete novelle.

Se in un film i protagonisti si perdono in un bosco – lo sappiamo benissimo – spesso da questo smarrimento non nasce molto di buono per loro. Stessa cosa se si ritrovano chiusi in una casa isolata o in prossimità di fosse comuni o cimiteri più o meno consacrati. In Bloodline, per la regia di Edo Tagliavini da un soggetto di Virgilio Olivari e Mario Calamita, tutte e tre queste matrici, queste linee guida narrative si possono riscontrare e non sono isolate, ma cooperano tra di loro.

Si potrebbe dire che non si prospetta una vita facile per i protagonisti di questo film e noi non possiamo che confermare questa ipotesi: ma non diremo nulla di più, perché cosa sia e come sia Bloodline crediamo che valga la pena (nonostante il cinema sia ormai un passatempo elitario per le finanze di molti) scoprirlo al buio di sala. Con l’occasione, ricordiamo che la distribuzione di quest’opera sarà curata da Distribuzione Indipendente, con una copertura di circa quaranta copie su tutto il territorio italiano.

Il film di Tagliavini si serve di una sceneggiatura senz’altro tecnica, pienamente e totalmente dedita alla narrazione di una storia da manuale e, forse proprio in virtù di questo suo felice abbandono al “Modello”, ha ritmo, poche pause e pochi vuoti narrativi. Inoltre, Bloodline è interpretato con il giusto spirito (anche un po’ in maniera naif, la qual cosa non guasta) e montato con criterio e rigore. Le soluzioni di regia, poi, seguono una cifra estetica retta da un climax interno di complessità, per cui il risultato è apparentemente sempre più rozzo e selvaggio mano a mano che la progressione narrativa tocca i suoi apici (anche) orrorifici.

Struttura, rigore, precisione, passione, competenza: a prima vista questo di Tagliavini potrebbe essere non un capolavoro, ma senz’altro un film significativo. Tuttavia c’è un problema da superare, come ovviamente si sarà capito. Il problema, utile da sviscerare perché ci permetterà anche di fare un piccolo discorso che comprenderà lo status del nostro cinema in generale, è quello della confezione, confezione sotto tutti i punti di vista.
In primis, confezione come spinta pubblicitaria: nonostante il lavoro coraggioso e appassionato, interessante e ambizioso (quaranta copie non sono, infatti, poche) di Distribuzione Indipendente, questo film avrà comunque, purtroppo, una diffusione limitata se non nello spazio almeno nel tempo. E soprattutto, sarà una diffusione orientata a luoghi di riproduzione fuori dalla sala cinematografica (pay per view, home video) e, come per stessa ammissione del produttore Mario Calamita, fuori dal territorio italiano, territorio dove certi prodotti non attecchiscono molto, almeno al momento attuale. La poca spinta c’è perché, come prevedibile, pochi e non abbastanza sono proprio i soldi che dovrebbero animarla. Con (relativamente) poco budget non si può fare (relativamente) degna copertura – degna o, quanto meno, al livello di altre produzioni sempre di budget medio-basso, ma comunque mediaticamente meglio sfruttate.

Il secondo punto, nota dolente che ci sta molto a cuore, è la questione del genere. Il problema è il seguente: esiste al riguardo molta letteratura e non meno frequenti sono gli studi del genere cinematografico o gli studiosi che hanno formulato teorie avanzate e stimolanti che miscelano elementi sociali, psicoanalitici, comportamentali, storici. Il genere, così come accademicamente concepito, è una struttura essenzialmente dedotta dalle opere, che si può articolare in varie forme, pur rimanendo deduzione, operazione intellettuale a posteriori. Invece, accade che molti fantomatici cineasti, alla ricerca di una qualche apologia per la loro produzione, magari tutt’altro che eccelsa per motivi che ora non analizzeremo, si rifugiano nella comoda alcova del genere già in fase di concezione della loro opera. Ecco come il genere diviene confezione, qualcosa che copre il pacchetto film e non qualcosa che si appone dopo. Così, schedarsi in un genere diviene, oltretutto, una sorta di bolla di liceità che rende permessa e tollerabile, accettabile e perdonabile ogni imperfezione, disattenzione o sommarietà, soprattutto se addizionata alla (per carità) oggettiva scarsezza di fondi. Di questo modo, la “scusa del genere” diviene un viatico non tanto per il dilettantismo, che di per sé non è necessariamente un danno, ma per il pressappochismo: quindi vediamo in esso (nel pressappochismo) il mostro che abita tutti i film di genere, dal primo all’ultimo, soprattutto quelli prodotti di recente, quasi in omaggio/memoria della fase di affermazione del genere stesso, ossia gli anni Settanta e Ottanta – fase che, oltretutto, in quanto costruzione intellettuale, rimane ampiamente discutibile e che ci accontentiamo di definire come tale solo per amor di discussione.

Dunque, riprendendo le fila più contingenti di Bloodline, non possiamo non dire che questa mistura di sensazioni, che accompagnano (nostro malgrado) la visione di una fantomatica categoria di film a cui quello di Tagliavini (stavolta suo malgrado) appartiene, non influenzi la sua fruizione. Ne risente, ne risente eccome. Però, per dirla all’americana, cast & crew, a tutti i livelli, di Bloodline hanno messo qualcosa in più, qualcosa di diverso. Qualcosa che rende questo lungometraggio, nonostante la veste umile, ma precisa, completa e rispettosa, con cui è stato confezionato, superiore alla media delle pellicole che gli sono più o meno parenti. Qualcosa che permette, a fine visione, di pensare al genere (o ai generi, visto che il film in analisi ha l’anima del pastiche) non soltanto come a una forma di apologia a priori, ma anche come a un titolo a posteriori, un’etichetta da usare dopo la visione per capire meglio l’opera che si ha davanti, sempre senza confondere il capire con l’approvare e/o apprezzare.

Perché va da sé che potrà non piacere, il film di Tagliavini, com’è dopotutto lecito. Noi, consigliandolo a voi, speriamo che possa invece divertire e intrattenere, anche perché praticamente scevro di quelle amare note di impegno sociale, storicamente velate e mascherate dietro la veste horror (altro motivo che tende a separare questo film dall’ammasso di quelli nati per essere “opere di genere” prima ancora che opere “di per se stesse”).
Nella speranza che Bloodline rappresenti davvero, come alcuni hanno affermato, un punto di svolta del cinema indipendente italiano.

Non tanto per gradimento, non tanto per successo monetario, non tanto perché strizzi l’occhio ai grandi classici (anche nostrani) che hanno strutturato il genere, cosa che, poi, più che un merito, si rivela spesso come un limite: il progetto Bloodline merita un po’ più di considerazione del solito, attenzione e sguardo critico perché, “malgrado tutto”, ha provato a fare qualcosa di più, semplicemente curando tutti gli aspetti della sua produzione con la stessa passione, attenzione e professionalità; tutta questa integrità e coerenza, a prescindere che il film incontri o meno il gusto di chi guarda, sono tangibili e questi valori (finalmente!) devono diventare un giusto modello, una stella polare di tutte le produzioni indipendenti (e non, sia chiaro) nostrane, a prescindere dal budget e dal genere.

Titolo: Bloodline
Regista: Edo Tagliavini
Soggetto: Virgilio Olivari, Mario Calamita
Sceneggiatura: Antonio Tentori, Mario Calamita, Taiyo Yamanuchi, Emiliano Coltorti, Edo Tagliavini
Attori principali: Monica Citarda, Francesca Faiella, Marco Benevento, Paolo Ricci, Fabio Rizzuto, Virgilio Olivari, Valentina Del Rio, Francesco Mastrolilli, Elena Ravaioli, Bruno Valente, Alessandra Aulicino, Francesco Malcom
Fotografia: Marina Kissopoulos
Montaggio: Lorenzo Loi
Montaggio Audio: Marco Benevento
Musiche: Claudio Simonetti, Pazi Mine
Produzione: Opencinema
Effetti speciali: Claudio Stivaletti
Scenografie: Paolo Dore
Costumi: Gina Larocca
Trucco: Eleonora Arcieri
Genere: Horror
Durata: 94′
Uscita nelle sale italiane: 9 dicembre 2011