Un mystery senza tensione

Secondo adattamento del romanzo di Daphne Du Maurier dopo quello diretto da Henry Koster del 1952, il film non sa avvincere lo spettatore e si limita a raccontare una storia d’amore che si vorrebbe torbida e a sfruttare ambientazione paesistiche riprese con stile patinato e pubblicitario.

Cresciuto dal cugino maggiore Ambrose dopo esser rimasto orfano nella sua dimora in Cornovaglia, il giovane Philip, viene da questi affidato alle cure del padrino Nick Kendall quando Ambrose parte per Firenze in cerca di un clima migliore. Appresa attraverso una sua missiva del matrimonio con la cugina Rachel, Kendall e Philip divengono ben presto sospettosi riguardo alla nuova unione; sospetto  suffragato dalle successive lettere dell’uomo dove esprime sfiducia sulle cure mediche che sta ricevendo in Italia. Preoccupato, Philip giunge nella penisola solo per scoprire che Ambrose è deceduto e Rachel scomparsa.

Di più non vogliamo aggiungere, per non privare lo spettatore delle numerose sorprese offerte dalla trama. Questo secondo adattamento del romanzo della Du Maurier, le cui opere hanno incontrato al cinema notevole fortuna (suoi i romanzi da cui Hitchcock trasse Rebecca, la prima moglie e Gli uccelli), nonostante i rivolgimenti che si susseguono via via nel racconto, non riesce tuttavia ad appassionare ed a coinvolgere fino in fondo, come dovrebbe quel genere cinematografico che lo stesso Hitchcock definì «melodramma a peripezie», fondato appunto su repentini colpi di scena volti a sorprendere lo spettatore ed a conquistarne l’attenzione. Non riesce perché tali rivelazioni sono ampiamente prevedibili e, più che l’aspetto dell’indagine che dovrebbe caratterizzare un mystery come questo, al regista importa illustrare la storia d’amore fra i protagonisti sullo sfondo di paesaggi ripresi in modo pedantesco e appunto meramente illustrativo (siano la selvaggia Cornovaglia o l’esotica- per un anglosassone, ovviamente- Toscana con la sua architettura e il suo clima solatio). Il regista e sceneggiatore si concentra unicamente sull’aspetto sentimentale della vicenda, trascurando la suspense e il côté misterioso che nel romanzo e nel film del 1952 circondavano la protagonista. Il film scade così ben presto nel bric-à-brac, se non proprio nel cattivo gusto, senza contare il ridicolo involontario cui si espone quando tratteggia il personaggio eponimo come conturbante femme fatale, maliarda il cui fascino perverso seduce gli uomini che le si avvicinano per condurli poi alla morte, o comunque sconvolgerne l’esistenza. Il film su regge su stereotipi troppo abusati (come l’esotismo dell’Europa romanza, visto come luogo di grandi passioni ma anche di potenziali pericoli: non si dimentichi che il personaggio di Rachel è per metà italiano) per essere ancor oggi credibili e suscitare un autentico e spontaneo coinvolgimento nello spettatore. L’immagine degli italiani infidi ed intriganti (vedi in personaggio di Favino), degni eredi di Machiavelli (o meglio, dell’idea che ne ha la tradizione anglosassone), analogamente, è stata troppe volte sfruttata per conservare tuttora un minimo di efficacia narrativa. Le stesse riprese del paesaggio- tese a mostrarne la natura selvaggia ed estrema quando si tratta della Cornovaglia, quella calda e avvolgente, ma insieme minacciosa e ingannatrice, della Toscana e dell’Italia- tradiscono un immaginario che non oggi non ha più alcuna presa sul pubblico, appunto perché retto su luoghi comuni secolari, che il film non sa vivificare e rendere funzionali alla riuscita complessiva dell’opera. Il ritmo lento, di derivazione televisiva, oltre ad appesantire la visione, fa somigliare il film ad una puntata troppo lunga di una serie da piccolo schermo, o ad un esempio di teatro filmato, che ben poco ha di cinematografico nel suo linguaggio. Dunque, nonostante i colpi di scena presenti nel romanzo, che fondeva insieme l’aspetto sentimentale e quello gotico misterioso in un riuscito connubio, il film non sa costruire una tensione costante e duratura, un’atmosfera di tensione avvolgente che catturi l’attenzione e l’emotività dello spettatore come un tal genere di pellicola dovrebbe fare. Quello che il film propone è dunque un romanzo d’amore gonfio di stereotipi invecchiati, dove il melodramma, invece di suscitare grandi passioni,  finisce ben presto con l’annoiare e far rimpiangere, non solo gli adattamenti hitchockiani dei romanzi della Du Maurier, ma anche la prima versione di questa Cugina Rachel, pervasa com’era da una tensione narrativa tuttora efficace: merito di una regia sobria ed essenziale e d’interpretazioni più convincenti e meno enfatiche di queste.

Titolo originale: My cousin Rachel
Regia: Roger Michell
Soggetto e sceneggiatura: Roger Michell, dal romanzo di Daphne Du Maurier
Fotografia: Mike Eley
Montaggio: Kristina Hetherington
Musica: Real Jones
Scenografia: Alice Normington
Costumi: Dinah Collin
Interpreti: Rachel Weisz, Sam Claflin, Holliday Grainger, Iain Glen, Pierfrancesco Favino, Simon Russel Beale, Tim Barlow, Bobby Scott Freeman, Poppy Lee Friar, Tristam Davies, Andrew Havill
Prodotto da Kevin Loader
Genere: drammatico
Durata: 106′
Origine: Gran Bretagna/Stati Uniti
Anno: 2017