Se dal paradiso si finisce all’inferno

Giovedì 4 febbraio presso il Museo di Roma ha avuto luogo l’affollata presentazione del libro di Stafano Malatesta Quando Roma era un paradiso pubblicato da Skira Editore.

Un trittico di tutto rispetto ha raccontato un po’ al pubblico il nuovo libro di Stefano Malatesta, noto giornalista romano, inviato di guerra, scrittore di resoconti di viaggio, un trittico formato da Angelo Guglielmi, la Storia, Giorgio Montefoschi, lo Stile, Emanuele Trevi, la Sovversione. Almeno presumiamo fossero loro, li abbiamo intravisti, sentito le loro voci, ma la bellissima sala delle conferenze del Museo di Roma, spudoratamente vicino a Piazza Navona, era gremita di pubblico, tra l’altro assai interessante: abbiamo rischiato d’inciampare in Antonello (Venditti) e ci ha sorpreso alle spalle l’inequivocabile incedere ritmico dei tacchi di Marina (Ripa di Meana). E non la si prenda per un’autobiografica divagazione: è la premessa migliore per introdurre il nuovo libro di Malatesta, tutto intriso di vita romana (e ostiense), avventure artistiche, cinematografiche, ricordi e personaggi differenti, a partire dall’arrivo glorioso degli americani nella capitale e poi attraverso l’epoca d’oro e gli epigoni di terracotta della Dolce Vita nostrana.
Si stanno moltiplicando nelle ultime stagioni i libri che raccontano Roma, ma c’è chi lo fa con gradevole erudizione, come Giuliano Capecelatro nel suo Passeggiate d’Autore. Da Caravaggio ai Beatles (Iacobelli), prediligendo l’organicità della ricostruzione geostorica, e chi preferisce muoversi random, con libertà e leggerezza, tra gli aneddoti di costume più disparati, quasi assecondando il mobile fluire della rimembranza personale, è questo è di certo il caso di Stefano Malatesta, protagonista lui stesso di quegli anni formidabili, e in sovrappiù scopertosi artista oltre che uomo di lettere, quindi empaticamente congiunto ai numerosi artisti che cercavano allora fortuna incrociando i loro destini con quelli di galleristi, critici, mitomani.
Un “libro misto” il suo, come ben si è detto durante la presentazione, che appunta stavolta lo sguardo del narratore di viaggi, dell’affabulatore di “cose viste”, perché tale è il suo autore, su ciò che gli è più familiare, la sua città, così sfaccettata e umanamente poliedrica, tanto imprevedibile e stratificata di dettaglli vividi, vivi.
L’edizione di Skira è piacevole da maneggiare, il titolo rosso perentoriamente evocativo; davvero godibile immergersi poi in queste rievocazioni che ci svelano preziosi retroscena della vita di personaggi atipici come Kounellis, Zeichen, Tano Festa, Plinio De Martiis, Pico Cellini, il “Puma” (Schifano), atipici persino per quella Roma che nell’immaginario del dopoguerra aveva soppiantato la troppo politicamente compromessa e ambigua Parigi. Una Roma inquieta ma finalmente liberata dal fascismo, disposta quindi a perdonare e ad accogliere tutti, pittori destinati ai vischiosi fasti di via Margutta, improbabili cinematografari (Peppino Amato su tutti), fini dicitori come Flaiano, astuti falsari come i fratelli Riccardi, comunisti granitici, geni selvatici, bellezze hollywoodiane, balie mozzafiato e fameliche…
Se molte pagine inducono al sorriso (icastica la rivelazione sull’etimologia del termine “paraculi” o il confronto linguistico tra la cucina francese e quella romana), la prosa scorrevole e complice di Malatesta, il cui andamento ha il tono caldo del parlato, non riesce a evitarci l’inevitabile: a un certo punto, al pari d’una ghigliottina in mano a un fan di Robespierre, il confronto tra la Roma di ieri e quella di oggi scatta implacabile, e ci ricorda la tagliola romana evocata dall’autore a proposito degli amerikani (sic), che non si liberavano facilmente del fascino della città perpetua.
Oggi, al contrario, non è forse facile liberarsi da un senso di sfinimento davanti alla corruzione abnorme, agli scandali continui, alle disfunzioni croniche, alle follie non più dorate di una Roma profondamente, geneticamente mutata quasi.
Malatesta su questo fronte non si sbilancia, ma già il suo titolo ha del profetico a iosa (si tratta di una citazione di Cy Twombly): se Roma era un paradiso, è anche perché è divenuta nel tempo qualcosa di ben diverso.
Il respiro internazionale, la creatività smodata che la contraddistinguevano parrebbero rattrappirsi ai giorni nostri in un provincialismo mascherato, e non è affatto raro che le quotidiane vittime dei suoi singhiozzanti trasporti, del suo traffico feroce o della sua avvilente sporcizia la subiscono ormai come un inevitabile, ingiustificabile inferno.

Quando Roma era un paradiso
di S. Malatesta
Skira editore, Milano, 2015