Crisi, catastrofe, rivoluzione

Ben prima che il Covid19 sconvolgesse le nostre vite e sancisse definitivamente la crisi dell’economia occidentale, gli economisti più avveduti già da diverso tempo evidenziavano le storture e i paradossi sistemici dell’attuale sistema globalizzato e neoliberale. La pandemia in corso è il punto estremo di una crisi irreversibile del capitalismo, dopo il quale sarà impossibile tutto torni com’era, e che probabilmente e paradossalmente, proprio per queste ragioni, ci offre l’opportunità di ripensare nel profondo i principi dell’economia globale e il ruolo della finanza nelle dinamiche produttive dei vari Stati.

L’editore Meltemi, per la collana Linee, pubblica un versatile e utilissimo volume dedicato al pensiero di una delle voci “eretiche” e radicali degli ultimi decenni, Emiliano Brancaccio. Il titolo di questo libro non lascia ampi margini di equivoco: parafrasando Mao Tse Tung, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione raccoglie una serie di trascrizioni di interventi pubblici, articoli, saggi e interviste realizzati nell’arco di tempo che va dal 2007 alla cronaca del presente.

Ne emerge una linea di pensiero di estrema coerenza, capace di mettere in luce come i fenomeni che hanno caratterizzato la nostra disgraziata contemporaneità non siano bollabili come semplici fatalità ma siano consustanziali al sistema economico, un sistema che, come sostiene il collega di Brancaccio, Luciano Vasapollo, “produce crisi” per sua stessa intrinseca natura: una natura irrazionale e delirante, fissata sull’accumulo e sulla centralizzazione dello stesso capitale, che in tale tendenza esibisce chiaramente la sua stessa paradossale idiosincrasia.

Brancaccio, professore di Politica Economica, è un economista appartenente alla più solida tradizione marxiana, capace di risultare blasfemo non solo nei confronti delle visioni euroliberali che per l’apertura dei mercati hanno sacrificato le più basilari e semplici regole della dignità della persona, ma di risultare blasfemo anche per coloro che ingenuamente ritengono che l’uscita dall’euro o la fine stessa dell’eurozona possano essere le soluzioni a tutti nostri problemi. Se il problema è la libera e indiscriminata circolazione dei capitali, allora deflazione e politiche di estrema destra – perché per Brancaccio le politiche di austerità sono politiche di estrema destra – possono intensificarsi anche una volta fuori l’eurozona, anzi! Se come l’ex presidente del consiglio Romano Prodi afferma proprio in un dialogo con Brancaccio, la principale finalità del progetto europeo è sempre stata quella del mantenimento della pace, non possiamo però non riscontrare che l’unione non è stata costruita su basi solidaristiche e di coordinamento, ma su basi competitive.

Come afferma Giacomo Russo Spena nell’introduzione, i dubbi e lo scetticismo di Brancaccio per l’UE non hanno nulla a che fare con le smanie xenofobe del “fascismo liberale”: Brancaccio non crede che uscire dall’euro sia vantaggioso e si potrebbe anche adottare un’altra moneta, ma il problema resta la libertà indiscriminata dei flussi di capitali e – di conseguenza – la loro centralizzazione e convergenza in sempre meno mani. Se la piccola proprietà e la media borghesia vengono tagliate fuori e schiacciate, allora il capitale cresce in rapporto alle proprietà ereditate, mentre i redditi non salgono proporzionalmente: si tratta della tendenza dei ricchi a diventare sempre più ricchi e della centralizzazione capitalistica basata su fusioni e acquisizioni.

Il nome di Brancaccio è centrale nel dibattito contemporaneo, a partire dal volume Anti-Blanchard che fin dal titolo si presentava come un atto di accusa diretto e severo nei confronti delle politiche comunitarie economiche, per non parlare dei moniti contro le logiche di austerità prima, e soprattutto in tempi recenti il suo appello volto alla definizione di una proposta economica e sociale per contrastare il Covid19. L’economia è principalmente una disciplina fatta di numeri, equazioni, calcoli, ma un bravo economista è anche colui che riesce a farsi capire e a spiegare i principi delle proprie teorie: di qui la volontà multidisciplinare che tocca altri ambiti della cultura, dalla letteratura alla sociologia, dalla psicologia alla filosofia. D’altronde, questo libro non è un volume tecnico di economia, ma possiede una dimensione propriamente divulgativa e discorsiva.

I termini “crisi”, “catastrofe” e “rivoluzione” sono alla base delle analisi di Brancaccio: la nostra situazione attuale è di estrema gravità e il collasso sistemico significa anche “opportunità” di mutamento radicale. E se questa è l’essenza della krisis, appare evidente come “catastrofe” si rifaccia al funzionamento del meccanismo narrativo classico ed è lo stesso Brancaccio a richiamarsi alla tragedia shakespeariana, e ai criteri teorizzati dallo studioso Jan Kott. L’alternativa è tra catastrofe o rivoluzione, dal momento che catastrofe implica lo scioglimento di un intreccio, un atto risolutivo che esprime un risvolto positivo: “Più vicina è la catastrofe, più vicina e l’occasione di una svolta”.

Questi tre criteri, che scandiscono l’andamento del nostro presente, sono i seguenti: virus, crisi, lotta di classe. Per Brancaccio i profeti del “V” sbagliavano: certo, chi come l’ex ministro Gualtieri sosteneva in pubblico che la crisi economica determinata dal Covid19 avrebbe segnato un tracollo solo momentaneo e un istantaneo rimbalzo che avrebbe recuperato la perdita, lo faceva soprattutto per tranquillizzare una cittadinanza terrorizzata, ma la realtà dei fatti è che il modello “V” non corrisponde al vero. La crisi che si spalanca col Covid19 determina una distruzione della capacità di spesa e di produzione, che diventa immediatamente distruzione psicologica e catastrofe sociale. E di qui, il terzo principio della narrazione di Kott: con la crisi, la prima a essere a rischio è la democrazia, per via della nomina di super-commissari e di uomini-forti che negano la necessità di un tessuto di lotta sociale, che si tenta sempre di escludere nei momenti di emergenza quando in realtà ha senso soprattutto in tali momenti.

Evocare Keynes oggi non basta,  invocarlo oggi assumerebbe un senso reazionario perché funzionale a mantenere lo status quo. Sarebbe stato utile forse venti anni fa, ma alla luce della catastrofe dovuta al Covid19 l’asticella va spostata ancora più in alto: Brancaccio non si tira indietro dal parlare di fascismo in merito alle politiche di austerità, dal momento che “il fascismo è un virus interno alla meccanica stessa del capitale, che si alimenta delle contraddizioni innescate dalle crisi capitalistiche”. Oggi l’antifascismo è perciò un compito ineludibile, solo se in chiave anticapitalista: oggi persino i principi delle democrazie liberali sono messi in questione, per la priorità del potere dei mercati sulla vita delle persone. D’altronde, il cosiddetto “sovranismo”, che cede fin troppo spesso alle lusinghe della xenofobia e del populismo più squinternato, non tiene conto del fatto che il peggioramento della classe media e delle condizioni di lavoro non sono dovute alla libera circolazione delle persone ma alla libera circolazione dei capitali e all’indiscriminata concessione lasciata ai mercati. La reazione autoritaria si allea con l’establishment liberale da sempre, soprattutto in epoca moderna, ma d’altronde globalisti e sovranisti sono le due facce della medaglia del capitale.

Non mancano infatti le stoccate severe nei confronti della “nuova sinistra” filo-liberista, folgorata sulla via delle dottrine del mercato, capace negli ultimi decenni di “comprimere la quota di reddito nazionale destinata ai lavoratori in cambio di qualche residua prebenda sociale e di poche concessioni sul versante delle libertà civili”. Se appaiono forme di emancipazione, non sono che tentativi di livellare e annullare le differenze tra gli sfruttati, perché il capitale ci rende tutti uguali, pura forza lavoro: “Le lotte femministe contro i rigurgiti di patriarcato, così come le rivendicazioni degli immigrati per la cittadinanza, generano forza realmente sovversiva e trasformatrice solo se declinate dal punto di vista della lotta di classe”.

Su questo tutta la radicalità del pensiero di Brancaccio diventa evidente: democrazia e capitalismo oggi sono inconciliabili, dopo che senza dubbio storicamente il capitalismo aveva contributo alla nascita della democrazia. Ma oggi significherebbe avere dei paraocchi ideologici, essere in malafede o semplicemente non avere i mezzi di comprensione, non accorgersi che in materia di diritti dei lavoratori e salari, di accesso ai servizi e benessere, stiamo assistendo a un neo-feudalesimo dove i rapporti di forza tra classi sono totalmente sbilanciati nei confronti del capitale e delle classi dominanti, fattore che incrementa le disuguaglianze economiche e sociali: “il mercato non prevede il futuro ma lo determina, secondo gli interessi della classe egemone”.

Così come la parola classe è diventata un “tabù” dell’attuale dibattito economico e politico, figuriamoci quando si tenta di parlare di “ripristino del controllo sui mercati finanziari” o persino di “pianificazione” e questo perché al di là delle illusioni (in buona o cattiva fede) dei neoliberisti, la bestia del mercato e della speculazione finanziaria è destinata a ritorcersi contro le stesse istituzioni nazionali. La libertà finanziaria soffoca tutte le altre libertà: la crescita del capitale esclude il mantenimento della democrazia, della libertà e della pace, perché tutto è sbilanciato a causa delle ciniche irrazionalità del sistema. Come se ne esce? Con una trasformazione radicale, capace di sfidare la litania dei nostri tempi, che la libertà individuale non possa coniugarsi con la pianificazione collettiva.

Non sarà un pranzo di gala né una festa, ma l’immediato futuro richiede un “libercomunismo”, vale a dire la definizione di un’intelligenza collettiva rivoluzionaria capace di riscoprire le ragioni del socialismo e la sfida all’irrazionalità di accumulo del capitale. Ne va, oggi, della nostra sopravvivenza.