Ritratti d’Autore

Sebastiano “Nino” Celeste (Santa Croce di Magliano, 1940) è un direttore della fotografia italiano. Si forma negli anni sessanta, lavorando come assistente di macchina e operatore su importanti set, al fianco di Giulio Albonico, Mario Masini e Pino Pinori. Esordisce come direttore della fotografia negli anni settanta; fra i suoi primi lavori, Corbari di Valentino Orsini, il cortometraggio di sensibilizzazione Le mura di Sana’a di Pier Paolo Pasolini, rivolto all’Unesco, e diversi cult di Umberto Lenzi fra i quali Napoli Violenta. Dopo aver firmato nel 1979 la fotografia di un episodio della miniserie televisiva I giochi del diavolo di Mario e Lamberto Bava, negli anni ottanta entra stabilmente nel mondo della TV: è sua la fotografia di molte puntate e stagioni di serie televisive quali La piovra con Michele Placido, di Damiano Damiani, Florestano Vancini e Luigi Perelli, Un posto al sole e La squadra. Dopo sessant’anni di cinema è tutt’ora attivo come direttore della fotografia fra l’Italia e l’Albania; fra i suoi ultimi lavori, Burraco Fatale con Claudia Gerini.

Come è nato in lei l’interesse per l’attività cinematografica e quale è stata la sua formazione professionale prima di diventare direttore della fotografia?
Nino Celeste: «La mia formazione cinematografica è stata puramente casuale: stavo facendo da comparsa sul set di un documentario e ho conosciuto un direttore della fotografia dell’epoca che si chiamava Giulio Albonico. Ho trascorso cinque giorni con lui e mi ha convinto a toccare la macchina da presa e a frequentare un corso per iniziare a formarmi. Poi ho girato con Albonico un primo cortometraggio in Africa, non sapevo neanche caricare la pellicola ma lui mi tranquillizzava: “lascia perdere, quando torniamo te lo insegno”»

Nei suoi anni di apprendistato oltre ad Albonico ha affiancato anche altri importanti direttori della fotografia come Pino Pinori e Mario Masini. Cosa ricorda di quegli anni di gavetta?
NC: «Sì, io ho continuato con Pinori, con Masini, con Carlo Di Palma e con molti direttori della fotografia francesi e spagnoli. Negli anni sessanta si facevano molti western in coproduzione, dove prima ho fatto da aiuto e poi da operatore. I miei principali maestri furono Albonico e Pinori: ho passato 5 o 6 anni con Albonico e più o meno altrettanti con Pinori. A volte sono stato assistente anche di Mario Masini, che ha fotografato quattro dei film di Carmelo Bene e qualche anno dopo anche Padre Padrone; di tanto in tanto Carmelo Bene litigava con Masini e mi chiamava alle 2 di notte per rifare alcune scene: fra Bene e Masini c’era un rapporto di amore e odio, si amavano ma di tanto in tanto si odiavano, il loro rapporto fu così ma sempre all’insegna di una grande professionalità e talento da parte di entrambi»

Nel 1971 lei ha collaborato alla fotografia del cortometraggio Le mura di Sana’a di Pasolini, girato in Yemen per invitare l’Unesco a preservare il centro storico della città, durante i sopralluoghi preparativi de Il Decameron. Come aveva conosciuto Pasolini e Tonino Delli Colli? Quali set ha condiviso con loro e cosa ricorda nello specifico delle riprese di quel breve documentario?
NC: «Con Pasolini e con Tonino ho condiviso questo documentario, Le mura di Sana’a, poi Pasolini mi ha chiamato a fare la fotografia di un film di attualità intitolato 12 dicembre, che doveva ricordare quanto successo fra il Sessantotto e il 1972. Fu un film abbastanza tosto, andavamo sempre dove c’erano bagarre e sommosse. Ricordo in modo particolare in Calabria, ai tempi del famoso “boia chi molla”: ci avevano accerchiati in 7 o 8, ma Pasolini ci seppe difendere con una forza bestiale. Ricordo Pier Paolo come una persona stupenda, chiedeva sempre “per favore”, “posso?”, “si può girare?”. A prescindere dalla sua innegabile intelligenza, era una persona molto umile e rispettosa verso gli altri e verso noi tecnici. Mi aveva anche proposto di fare un film, il Porno-Teo-Kolossal che aveva in programma di girare dopo Salò, ma purtroppo è stato assassinato»

Un altro film storico del cinema italiano al quale lei ha preso parte come operatore di macchina è I cannibali, secondo film per il cinema di Liliana Cavani che rimetteva in scena negli anni del Sessantotto la tragedia di Antigone ed Emone. Cosa ricorda di quel set e in generale degli anni della contestazione?
NC: «I cannibali è stato un altro film durissimo: la sveglia era alle 3 di mattina e si girava fino alle 10 di sera. Il film lo giravamo praticamente tutto con la macchina a mano, ma Cavani chiedeva molta precisione. Una scena che mi ha lasciato una grande soddisfazione è stata quella dell’interrogatorio di Britt Ekland/Antigone, che veniva presa, messa su una sedia e picchiata da questo gruppo di poliziotti del regime. Cavani voleva la soggettiva di Ekland sulla sedia, quindi io reggendo la macchina a mano mi sono seduto sulla sedia mentre tutta la troupe si allontanava dalla stanza perché ne avrei ripreso ogni punto. A un certo punto della scena l’attrice veniva proprio sbattuta giù dalla sedia dai gendarmi, e anche per quella soggettiva Cavani aveva dato agli attori l’indicazione di “buttare giù la sedia con l’operatore sopra”. Io l’ho sentito ma non ho mai tolto, neanche per un istante, l’occhio dalla macchina, e quando mi hanno buttato giù dalla sedia poi mi hanno ritirato su e io ho continuato a girare. Alla fine mi hanno fatto un applauso, la scena era venuta benissimo e quando l’ha vista in proiezione Cavani è venuta da me e mi ha dato un bacio, per dire quant’era contenta. Ero conosciuto come un bravo operatore di macchina, ai tempi. I cannibali fu un film bellissimo, durante gli anni della contestazione accadevano tante di quelle cose; poi Cavani sapeva tutto, era una regista intelligentissima e tecnicamente molto preparata»

Quale film sancì poi il suo esordio alla fotografia?
NC: «Ho fatto da seconda unità ne I Corbari di Valentino Orsini: Pino Pinori curava la fotografia principale, la seconda ce la dividemmo io e Franco Taviani. Il mio primo film vero e proprio da direttore della fotografia Simone e Matteo – Un gioco da ragazzi di Giuliano Carnimeo: avevo terminato Zorro di Duccio Tessari da operatore di macchina, con Giulio Albonico alla fotografia, e avevo preso un impegno sempre come operatore con Alain Delon in persona, che doveva produrre un film su un gruppo musicale in Cina. Quando Carnimeo mi chiamò per propormi il film io dissi che non potevo accettare in virtù dell’impegno con Delon, ma lui insisteva e disse che voleva propormi di fare stavolta la fotografia, non solo da operatore. Il film era pieno di effetti speciali, scontri di macchine, motoscafi, e allora gli dissi “se ci riesci va bene”, pensando che non ce l’avrebbe fatta. Carnimeo invece è riuscito a convincere la PAC e così abbiamo girato questo film e da quel momento in poi ho lavorato quasi ininterrottamente, facendo film e serie tv uno dopo l’altro»

Con Umberto Lenzi, massimi esponenti del poliziottesco italiano, lei ha girato due film: Napoli Violenta del 1975 e Il trucido e lo sbirro del 1976. Cosa le ha lasciato il sodalizio con Lenzi? Provenendo da un certo cinema “di sinistra”, cosa ricorda dei dibattiti circa la collocazione politica dei poliziotteschi, da molti giudicati reazionari se non tout court fascisti?
NC: «Io non li ho mai visti come film politici, per me i poliziotteschi erano dei film d’azione che si facevano con una certa furbizia per attirare lo spettatore a cinema: erano fatti per incassare denaro, non c’era un intento politico, per quanto Lenzi era molto politicante e spesso nelle pause discuteva soprattutto della politica spagnola. Napoli Violenta lo girammo in un periodo in cui sia Umberto Lenzi che io eravamo due matti: molte riprese le facemmo con la macchina a mano appesa allo sportello di un’automobile, oppure stando io a cavallo di una motocicletta. Oggi ci sono il drone, la GoPro e tutta una serie di altre strumentazioni e supporti per le riprese, a quei tempi era tutto macchina a mano e si rischiava molto: nella scena della funivia con Maurizio Merli, i cavi dell’alta tensione a volte erano a due centimetri dalle nostre teste. Napoli Violenta è stato un film molto particolare per me e anche molto pericoloso. Quando dovemmo girare la scena di un assalto alla banca, Lenzi, che era matto ma bravo, disse alla produzione “non avvisate nessuno, facciamo una cosa all’improvviso”: siamo partiti, sono entrati i tre attori con dei passamontagna in testa, Lenzi e io siamo scesi con la macchina da presa a riprendere e nel giro di pochissimo tempo ci siamo trovati circondati dalla polizia, che ci ha requisito tutte le apparecchiature. Siamo stati 2 giorni in commissariato, poi si è chiarita la nostra situazione e abbiamo rigirato la scena. Napoli Violenta lo realizzammo così, girando on the road, ma è venuto molto bene. Eravamo matti o eravamo giovani, non lo so, o amavamo troppo questo lavoro»

Di Napoli Violenta hanno fatto storia le inquadrature in soggettiva dal cruscotto delle automobili o delle moto impiegate dai protagonisti del film: come venivano realizzate, da un punto di vista tecnico e pratico?
NC: «Con la macchina a mano: io mi sedevo al fianco del guidatore, che a volte era Maurizio Merli e a volte uno stuntman. Venivo legato al sedile con la macchina a mano e giravamo, e per velocizzare un po’ la ripresa si andava a venti fotogrammi al secondo invece che a ventiquattro»

Nel 1984 lei fotografa la serie tv La piovra diretta da Damiano Damiani, e continua a seguire anche le tre successive stagioni, affiancando prima Florestano Vancini e poi Luigi Perelli alla regia. Come venne coinvolto nel progetto e quanto fu importante l’esperienza avuta con i poliziotteschi degli anni settanta? Cosa ricorda dei tre registi e del giovane Michele Placido sul set?
NC: «Damiano Damiani stava girando per la terza rete Finché dura la memoria, e il produttore mi impose a Damiani che accettò di buon grado. Anche quello fu un lavoro tutto macchina a mano, e con Damiani i rapporti si limitavano a un buongiorno la mattina e a un buonasera di sera, lui era un omone che metteva paura. Terminato quel lavoro dopo una settimana o due mi chiama la produzione, che era quella anche de La piovra, “senta Celeste, ci ha fatto il suo nome Damiani per un nuovo lavoro”, e io “non mi prendete in giro, con Damiani ci dicevamo solo buongiorno e buonasera”. Pensavo davvero che fosse lo scherzo di un amico ma loro mi richiamarono e mi diedero un appuntamento a un certo indirizzo; io decisi di andare per curiosità, per capire chi mi aveva fatto lo scherzo, e invece la produzione era vera, con i due produttori che continuavano a dire che Damiani aveva fatto mio nome. Io allora di istinto dissi “ma se ci dicevamo a stento buongiorno e buonasera come fa a fare il mio nome?”, ma in quel momento dietro di me sento una voce che dice: “io ti stavo studiando, devo fare un lavoro grosso con la macchina a mano e devo vedere come lavori”. Devo dire che tutto quello che avevo fatto prima, come Sbirro, Napoli Violenta, Roma a mano armata fu un’ottima scuola, riversata bene su La Piovra. Damiani era molto chiaro su quello che voleva a livello di fotografia: “non è televisione, per me è come un film, la luce deve avere i contrasti”. Molte scene de La Piovra le girammo relativamente buie, la rete si lamentava ma Damiani diceva “voglio questa fotografia”: loro non intervennero, ma dissero molto chiaramente che mi avrebbero sostituito per un’eventuale seconda stagione. Al momento della sua messa in onda invece La Piovra superò le più rosee aspettative e in molte recensioni si parlava bene anche della fotografia, e così ho fatto anche la seconda stagione con Florestano Vancini e la terza e la quarta con Luigi Perelli, poi alla quinta rinunciai, mi ero stancato. Michele me lo ricordo molto positivamente, lui era un attore che ascoltava, a volte si interfacciava anche lui sulle inquadrature e proponeva qualcosa ai registi ma prima di tutto ascoltava. Ha avuto il successo che meritava nei panni del commissario Cattani, poi hanno fatto anche altre stagioni senza di lui, ma non hanno riscosso lo stesso successo delle prime quattro»

Altre due serie televisive storiche della Rai che lei ha fotografato sono state La squadra e Un posto al sole. Come è nato il suo coinvolgimento in questi due progetti e cosa le è rimasto più impresso di ciascuno? Come si trova a passare fluidamente da cinema a televisione?
NC: «Nei primi anni novanta ho girato per Canale5 Camilla, parlami d’amore, con le famose monotubo che la mattina bisognava accendere due ore prima di cominciare a girare. Lì ho conosciuto Giovanni Minoli e Ruggero Miti: avevano ideato Un posto al sole, ma alla prima stagione aveva fatto un basso ascolto. Minoli voleva comunque riprovare, togliendo personaggi e aggiungendone altri, e mi hanno chiamato a fotografarla. Sono sceso a Napoli e per prima cosa ho stravolto le scenografie: erano troppo alte, 9 metri, io le ho ridotte a 2 metri e mezzo. La prima stagione l’aveva seguita un direttore della fotografia televisivo, che aveva fatto la classica illuminazione dall’alto, “a pioggia”, ma secondo me questa è una fotografia che danneggia l’immagine, che non fa vedere bene il viso e men che meno gli occhi degli attori. Dovevo restare tre mesi a fare Un posto al sole, sono rimasto tre anni, ho fatto un po’ da nave scuola per gli operatori della RAI. Dopo quei tre anni di Un posto al sole Miti mi ha richiamato a fare La squadra, girata sempre a Napoli, in una scuola del quartiere Piscinola. Anche sul set de La squadra ho trascorso due anni, mi sono portato gli stessi cameraman de Un posto al sole e hanno continuato loro a fotografare le successive stagioni. Passare da cinema a televisione per me è sempre stato abbastanza normale, anche perché trattavo il mezzo televisivo, digitale, come se fosse una cinepresa, non mi preoccupava il passaggio dalla pellicola, con cui ai tempi si giravano i film, al digitale delle televisioni. La fotografia per Un posto al sole, che era una soap opera, la feci un po’ più morbida, più visibile, ne La squadra invece c’erano veri e propri tagli da film, con penombre e mezzi toni, ma in generale, a passare fra cinema e televisione per me non c’è mai stato problema»

Rispetto ad altri suoi colleghi specializzati solo nel cinema lei lavorando anche in televisione ha potuto sperimentare prima il digitale, adesso diffuso anche a livello cinematografico: come ha vissuto lei questa graduale “rivoluzione digitale” che ha toccato prima il mondo televisivo e poi anche le produzioni cinematografiche?
NC: «Il digitale l’ho vissuto già dagli anni novanta, con le prime sessanta puntate realizzate per Canale 5 di questa Camilla, parlami d’amore. Il “vero” digitale in alta definizione l’ho sperimentato però con la prima stagione di Gente di mare, la prima fiction fatta in Italia, per la RAI, con quel formato. C’era un signore dall’Inghilterra che consegnava questa macchina, CineAlta 900, venuta prima delle Red e delle Alexa, che aveva iniziato a darci tutta una serie di indicazioni da seguire, per “rispettare” questo nuovo formato di ripresa che era il digitale in alta definizione; al che io gli ho detto “senti, mi hanno chiamato a fare fotografia, io faccio mia fotografia, per me la macchina è solo un mezzo”. Io ho regolato la temperatura colore e ho impiegato dei filtri come se stessi lavorando in pellicola, ho azzerato tutti i procedimenti della telecamera e ho fatto a modo mio. Questo inglese dopo aver visto il materiale la prima settimana non è più tornato sul set. Per me la macchina è mezzo, può essere pellicola o digitale, non importa, importa come illuminiamo. La vera differenza che c’è sta nel fatto che un direttore della fotografia che ha lavorato con la pellicola sa cos’è il contrasto, mentre adesso col digitale molti girano e pensano di fare tutto in post-produzione: in post puoi sicuramente aggiustare alcune cose, ma la luce che dai è quella che resta. Chi ha lavorato in pellicola può lavorare benissimo in digitale, chi ha lavorato in digitale non può lavorare in pellicola e pensa che ci sia una differenza enorme tra l’una e l’altra»

Negli ultimi anni lei ha girato molti film anche in Albania. Come è nato il legame con la filiera produttiva di questo paese e quali sono i registi e i produttori albanesi con cui ha collaborato più spesso?
NC: «La mia fortuna in Albania è dovuta sempre a La piovra: è andata in onda anche lì e ha avuto grande successo, dovevano fare un film poliziesco e il regista ha detto “chiamiamo il direttore della fotografia che ha fatto La piovra”. Sono andati su Internet, hanno trovato il mio nome e mi hanno contattato. Leggendo la mail io mi sono detto “dev’essere uno scherzo, ti pare che dall’Albania mi chiamano per fare un film?”, e allora ho risposto provocatoriamente, chiedendo di mandarmi il biglietto aereo andata e ritorno per fare un primo incontro. Dopo tre giorni è arrivato davvero il biglietto per una permanenza di quattro e un acconto! Il mio rapporto con la cinematografia albanese è iniziato così, e ho fatto altri dieci film. Gli albanesi sono persone molto competenti e con una grande umiltà, che ascoltano molto. Sul set del primo film ogni due o tre settimane cambiava l’équipe, perché venivano tutti ragazzi della scuola di cinema per apprendere cos’era la fotografia italiana. Ho fatto film con Saimir Kumbaro, Namik Ajazi, Besnik Bisha, Viron Roboci e svariati altri registi albanesi. L’ultimo film che ho fatto lì, l’anno scorso, è stato Il ritratto incompiuto di Clara Bellini di Namik Ajazi, co-prodotto dall’italiano Angelo Bassi, che si può trovare su Chili. Un altro film albanese che tengo molto caro è stato Inane di Besnik Bisha, che mi ha portato molti premi: era un film drammatico che abbiamo girato direttamente in bianco e nero, togliendo tutto il chroma della macchina da presa, a parte alcuni ricordi di quando i protagonisti erano ragazzini, che invece abbiamo girato con un’altra macchina da presa a colori. Con Bisha volevamo avvicinarci molto, a livello di inquadrature e luce, al cinema di Fellini. Come dicevo, gli albanesi sono gente che sa quello che vuole»

In questo momento i set stanno lottando contro l’emergenza del Covid19 e lei stesso ha preferito momentaneamente fermarsi. Dopo una vita a fare cinema, come sta passando adesso le giornate? Come pensa che l’industria cinematografica uscirà cambiata dall’esperienza del Covid19?
NC: «Io poco prima del Covid ho girato un cortometraggio documentario che si intitola My Dolly, di cui si trova qualcosa su YouTube. Quando dopo il lockdown i set hanno riaperto mi hanno chiamato tante volte per fare lavori ma ho sempre rifiutato, rischiare di contagiarmi alla mia età non è prudente e i tamponi continui che la normativa prevede sul set mi darebbero fastidio. Io mi auguro che questa calamità passi presto, in modo che si possa riprendere davvero, però ci sono molti set in corso già in questo momento. Quando tutto passerà ricomincerò con molto piacere anch’io. Spero ovviamente che il Covid19 passi presto: a casa sto benissimo, abito in campagna, curo gli animali e l’orto, ma mi manca il set»