L’ebbrezza dell’adolescenza

Presentato in concorso all’ultima mostra di Venezia, dov’è stato ingiustamente escluso dai premi maggiori, dopo La vie d’Adèle, il film di Kechiche è un nuovo capitolo sull’età dell’incertezza e dell’illusione, immersa nel calore meridiano della costa occitana.

L’aspirante sceneggiatore e fotografo Amin lascia Parigi e torna nella città natale di Sète per trascorrervi le vacanze estive. Vagabondando fra spiagge e locali diversi, ritrova le amicizie infantili e cerca al contempo nuovi incontri, che si riveleranno altrettante fonti d’ispirazione nonché di conoscenza di sé e degli altri.

Primo capitolo di una serie di cui è già in postproduzione il secondo canto, il film è un’immersione sensuale e coinvolgente nell’ansia per la vita e la scoperta dei sentimenti, come solo per personaggi adolescenti potrebbe avvenire. Fra le righe di una storia accativante, il regista dimostra una volta di più, dopo il precedente La vie d’Adèle, un’abilità quasi unica di approfondire le emozioni e i turbamenti che animano e sconvolgono l’interiorità dei giovani protagonisti. La capacità di far parlare il volto e il corpo dei vari personaggi è certo attribuibile ad una scelta registica, già sperimentata in precedenza, come quella di seguire gli spostamenti nello spazio diegetico dei protagonisti attraverso sinuosi movimenti di macchina che, come nella migliore tradizione della nouvella vague, si rivelano funzionali ad esprimere la vitalità e l’incessante ricerca (d’amore, d’amicizia o anche di solitudine e di comprensione di sé e del proprio futuro) che caratterizza i personaggi, presi da una ronde sentimentale che rende addirittura necessaria tale modalità di ripresa. Ambientato nel 1994, il film non manca poi di un’inconfondibile sapore rohmeriano, col facile allacciarsi e sciogliersi dei legami amorosi fra i personaggi, incerti sui sentimenti per la prima volta nella loro vita scoprono e ancora non sanno comprendere ed interpretare. Inoltre, la musicale mobilità della macchina da presa di Kechiche, il suo sguardo empatico, non connivente, ma capace di leggere nel profondo dei suoi personaggi meglio di quanto loro stessi sappiano fare, costituisce un elemento essenziale per lasciar emergere da quell’interiorità, la fisicità prorompente che attraversa e quasi brucia nel corpo dei protagonisti (come già ampiamente dimostrato in Cous cous): spesso li vediamo abbandonarsi a danze sfrenate in discoteche in riva al mare, quasi incapaci di trattenere la pulsione vitale che le anima e che il regista riesce, qualità assai rara, a trasmettere allo spettatore, contagiantolo con l’euforia e l’eccitazione che pervade i personaggi. Saper filmare il corpo di un attore o di un atttrice non è dote comune: si rischia da un lato il compiacimento estetizzante, dall’altro lo scadimento nel vouyeurismo se non nella trivialità. Così infatti è accaduto ad André Techiné in Quando hai diciassette anni, opera non riuscita appunto per l’incapacità di rappresentare la figura umana nella sua semplicità, per quello che è, senza nobiltarla con tecniche di ripresa posticce o di avvilirla mostrandone l’intimità più recondita. Kechiche è invece, insieme a François Ozon, uno dei pochi registi capaci di filmare la persona umana nella sua autenticità e bellezza, nella sua spontaneità e nel desiderio di contatto con l’altro, e di convogliare allo spettatore tutta la genuina freschezza e levità, la tensione verso un futuro ancora tutto da scoprire che connota i protagonisti di questa bellissima opera girata quasi tutta en plein air, sotto al caldo sole provenzale, sulla riva del Mediterraneo (le riprese si sono svolte sui luoghi dell’azioni a Sète, in Occitania), che sembra influire sul fermento vibrante nel corpo dei personaggi e si trasmette, attraverso le già menzionate scelte registiche di Kechiche, allo spettatore, sedotto da un  lato dalla ricchezza cromatica, dai colori caldi e pastosi della fotografia di Marco Graziaplena, che sfrutta abilmente le tonalità accese e chiare del paesaggio mediterraneo; dall’altro dall’impetuosa e accesa vitalità che corre nel sangue dei protagonisti e ne determina le azioni e il modo stesso di stare in scena (di qui la necessità di una macchina da presa quasi in perpetuo movimento, per non lasciarsi sfuggire nemmeno un istante dell’intrico di passioni e voglie che vibrano nell’interiorità e nel corpo dei personaggi). Se il titolo significa in arabo “destino, predestinazione”, è forse leggibile come l’incertezza di questo destino che accomuna i personaggi, specie il protagonista Amin, ancora troppo giovani ed ansiosi di scoperte e di vita per scegliere una sorte, o appunto un destino definito una volta per tutte; caratteristica pertinente forse all’età adulta, non certo all’adolescenza che vivono i personaggi, stagione d’incertezza e d’ansia di scoprire se stessi e gli altri e il mondo che ci circonda, con tutta l’impetuosità che connota questo momento della vita, che il regista, come ha già dimostrato nelle opere precedente, riesce a rappresentare con tanta empatia e calore, profondità di lettura e insieme levità musicale di racconto da contagiare lo spettatore fin quasi a farlo sentire parte della diegesi, a fargli provare e vivere quanto i suoi personaggi, coi loro attimi di gioia e di sofferenza, provano e vivono sullo schermo. Ma la regia di Kechiche sa mostrare, col pudore e la partecipazione necessari, anche il momento forse più alto dell’esistenza e certamente più complesso nella raffigurazione artista e nello specifico cinematografica, quello nascita, della venuta dal mondo di due esseri dinanzi allo sguardo attonito e commosso dei personaggi e dello spettatore. Qui, come in altri momenti, viene opportunamente abbandonata la musica da discoteca (fra cui la versione del 1994 di You make me feel (mighty real) di Sylvester uscita originariamente nel 1978) che ritma la durata per nulla eccessiva del film ) ed esprime, sempre con funzione empaticamente, il turbinio emotivo che agita i protagonisti, da musica strumentale e corale d’epoca barocca, tesa a conferire la giusta solennità e sostenutezza formale a scene di particolare pregnanza e significato come questa. Il film si rivela dunque l’ennesima conferma del grande e raro talento del regista di saper raccontare, con  sorprendente levità ed empatia, quell’età incerta, turbolenta e passionale chiamata l’adolescenza.

Titolo originale: Mektoub, my love: canto uno
Regia: Abdellatif Kechiche
Soggetto e sceneggiatura: Abdellatif Kechiche e Ghalia Lacroix, liberamente ispirato al romanzo La blessure, la vraie di François Bégaudeau
Direttore della fotografia: Marco Graziaplena
Montaggio: Nathanaëlle Gerbeaux, Maria Giménez
Musica: Jean-Paul Hurier
Scenografia: Ann Chakraverty
Interpreti: Shaïn Boumedine, Ophélie Bau, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, Alexia Chardard, Hafsia Herzi, Delinda Kechiche, Kamel Saadi, Hatika Karaoui, Karina Kolokolchykova, Meleinda Elasfour, Roméo De Lacour, Hamid Rahmi, Sieme Miladi
Prodotto da Abdellatif Kechiche, Ardavan Safaee, Jérôme Seydoux
Genere: commedia
Durata: 175′
Origine: Francia/Italia
Anno: 2017